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Borga presenta il progetto "In the name of God" sulla guerra civile, per molti aspetti ormai endemica, che si svolge nella Repubblica Centrafricana, uno dei paesi più poveri della Terra. Per la realizzazione del suo lavoro l'autore ha trovato la collaborazione dell’Onlus Amici del Centrafrica, organizzazione operativa nel paese, e dell’Associazione Six Degrees di Torino. Scopo della mostra oltre al voler documentare l'ennesima tragedia umanitaria di cui poco o nulla si viene a sapere dai media mainstream è anche quello di raccogliere fondi attraverso le donazioni.
L'approccio di Borga al tema è basato sulle migliori tradizioni del fotogiornalismo internazionale, sia sotto il profilo espressivo sia per quanto riguarda l'approfondimento conoscitivo sul campo di quanto va a fotografare. La selezione d'immagini esposte negli spazi di Paola Meliga riesce a darne conto, anche grazie ad un apparato testuale ben redatto e pieno di notizie utili per avvicinarsi alle situazioni riprese.
Un lavoro in sintesi efficace, professionale e meritevole che consiglio vivamente di voler vedere prima della chiusura della mostra prevista per fine giugno / luglio.
Dettaglio da una foto di Ugo Lucio Borga.
Detto questo, vorrei aggiungere che anche a me è arrivata, ieri per caso da un amico, la notizia della morte di un altro fotogiornalista, Andy Rocchelli di Cesuralab. Non sono un esperto del settore, mi limito ad incontrare le fotografie, e le vicende di chi le fa, man mano che il quotidiano mi porta ad esse. Nonostante questo, forse anche perché da poco avevo scambiato due parole con Ugo, ho provato un senso di malessere persino fisico. Sapere che ci sono in giro per il mondo delle persone che rischiano la loro vita per riportare da luoghi pericolosi delle fotografie mi sembra ogni giorno di più un atto inutilmente eroico. Riportare fotografie, cioè semplici pezzi di carta un tempo, ma oggi in prevalenza file che finiscono per ammuffire negli hard disk perché non vengono richiesti, pagati e diffusi da quasi nessuno.
Per chi fotografare in un mondo dell'informazione dove "(im)prenditori editoriali" senza scrupoli costruiscono profitti per i loro azionisti anche sottopagando, o non pagando affatto, chi porta loro il materiale informativo? Materiale che resta essenziale per poter distinguere un fogliaccio di pettegolezzi da una vera testata che faccia giornalismo d'inchiesta. Per l'opinione pubblica? Quale? Esiste davvero in Italia un'opinione pubblica in grado di distinguere, e pagare (comperando le testate su cui appare e lasciando le altre ai resi delle edicole), la fotografia giornalistica da una fotografia purchessia, magari rimediata "aggratis" dal web dai soliti grafici istigati al furto dai loro superiori con la minaccia del "contenimento dei costi", cioè dal fatto che se non lo fanno il loro posto di lavoro diventa inutile?
Temo che la risposta sia nel complesso negativa e che le cause di questo vuoto pneumatico siano molte e anche contraddittorie tra di loro. In ogni caso vorrei almeno che chi già lavora senza protezioni adeguate e a sue spese, rischio e pericolo non finisse almeno nel tritacarne della notizia del giorno, come fosse una sorta di sacrificio umano dovuto per poter prolungare di altre ventiquattr'ore l'agonia della "macchina imballata dell'intermediazione informativa" e di chi ci campa malamente sopra.
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