Dopo un lungo parto, finalmente oggi prende il via il mio Risorgimento di Tenebra. Non è stato facile, complici anche una miriade d'impegni che fino ad oggi mi hanno impedito di dedicarmici. Che poi, ad essere onesti, non ho nemmeno chiaro quanto mi ci vorrà per portare a termine questa avventura, visto che di cose da fare ne ho parecchie e gestirle tutte sarà davvero un'impresa. Ma, insomma, prima o poi dovevo pur iniziare, e questo mi sembrava un bon giorno. Oggi c'è il sole, la temperatura è favorevole e, grazie alla giornata di riposo che meritatamente sono riuscito a farmi, ho pensato "perché no?". E così, eccolo, in tutto il suo splendore. Il primo capitolo di quella che si prospetta come un'ucronia temporale, un viaggio immaginario che ha come protagonista il più grande genio che la storia abbia mai visto. Leonardo da Vinci, un nome, un simbolo, che io ho preso, rivoltato, rimescolato e gettato in un contesto che, diciamolo, non rientra proprio nelle sue corde. Ma tant'è, quindi... Vi lascio un ultimo ragguaglio: non so con che cadenza riuscirò a pubblicare i vari capitoli. La mia speranza è di farne uno a settimana, massimo quindici giorni, ma so per esperienza che le cose non vanno mai come le progettiamo quindi mi aspetto di non rispettare questa scadenza. A voi il giudizio. Buon divertimento!
Risorgimento di Tenebra Capitolo 1 - Il sogno di Leonardo
Firenze
era silenziosa. Stretti nella morsa della notte, i suoi abitanti dormivano,
sognavano, forse qualcuno ancora si attardava nella compilazione di un diario o
davanti ad un bicchiere di sidro. Per le strade nemmeno un’anima, non un
cavallo o viandante di sorta.
Leonardo
camminava svelto. La gamba sinistra claudicante e gonfia gli doleva come se
trafitta da chiodi, ma non per questo rallentava il passo. Non poteva
permetterselo.
Uno
sferragliare lontano lo fece trasalire: qualcuno aveva serrato il catenaccio
dell’uscio di casa. Era teso, Leonardo, complice il segreto custodito nella
tasca della tonaca.
Era
stato via da Firenze per parecchi anni, impegnato in un viaggio che lo aveva
portato a visitare , fra le altre, la stupenda Roma, con i suoi monumenti, le
opere d’arte di magistrale fattura e i colli, così verdi e lussureggianti da
far invidia anche alle terre più fertili. Vent’anni, una vita lontano dalla
propria casa, dalle proprie radici…
E
adesso era tornato, anche se non avrebbe voluto farlo. I motivo si nascondeva
abilmente sotto una coltre di scuse e menzogne, ma la verità pesava troppo per
essere svelata con tanta facilità. Per chi, poi? Nessuno doveva sapere, già era
troppo che ne fosse a conoscenza lui stesso.
Mentre
camminava, Leonardo rifletteva su quello che avrebbe comportato il fallimento
della sua missione: morte, devastazione, ogni male pensabile sarebbe sceso
sulla terra e ne avrebbe fatto scempio, come nemmeno la peste avrebbe mai
compiuto.
Passò
davanti a Santa Maria del Fiore, sfilandola sulla sinistra e imboccando uno
stretto vicolo, invisibile a chi non avesse saputo dove cercare. Lì, quando fu
a metà strada, si fermò, fissando la pietra scura di un anonimo muro.
Con
circospezione guardò che nessuno stesse trovandosi a passare di lì, quindi
tolse un piccolo oggetto di metallo dalla tasca soppesandolo nella mano neanche
scottasse. Era un sottile cono di ottone, lungo poco meno di dieci centimetri;
il profilo, segnato da profonde scalanature, lo faceva assomigliare ad una
chiave.
Leonardo
studiò il muro, e quando infine trovò quello che stava cercando, inserì il cono
in una stretta fessura. Un rumore sordo parve rimbombare lungo la parete, dando
la sensazione che non si sarebbe più silenziato, ma che pochi istanti dopo sfumò nell’aria fredda e scomparve senza che
nessuno avesse potere di udirlo.
Leonardo
afferrò una pietra con entrambe le mani e la tolse dal muro senza alcuno
sforzo. Quindi la posò a terra e, infilate le mani sotto la tunica, ne tirò
fuori un fagotto ben stretto.
«Che
Dio aiuti me e chi verrà dopo…» bisbiglio tenendo gli occhi chiusi.
Aprì
la pezza arrotolata, svelando un’ampolla ricolma di un liquido scuro e
sigillata con abbondante ceralacca rossa. Assieme vi era anche una pergamena,
arrotolata e tenuta ferma da un laccetto di cuoio. Leonardo prese entrambi gli
oggetti, quindi li ripose nella cavità nel muro. Poi raccolse la pietra, la rimise
al suo posto e si assicurò che tutto fosse com’era prima. Un suono, stavolta
più fievole del precedente, gli confermò la chiusura del blocco.
Senza
attendere oltre ritornò sui suoi passi, concedendosi un’ultima occhiata alla
facciata della Cattedrale.
Enorme,
imponente con la sua facciata spigolosa, il campanile erto e fermo come una
solerte guardia e alle spalle la meravigliosa cupola, sormontata dalla sfera di
metallo e dalla croce benedetta, che sovrastava il cielo come un comandante che
veglia sui suoi sottoposti.
«Difendilo
tu, che di mali tanti ne hai veduti e molti altri ne vedrai,» disse scrutando
l’oscurità al di sopra della lanterna, «io, per quanto questo mi rattristi, non
ne ho la forza.»
A
quel punto Leonardo riprese il cammino, sentendo ancora quel peso gravare sulle
spalle. Non lo avrebbe mai lasciato, lo avrebbe accompagnato fino a che la vita
non fosse scivolata via da quel corpo così imperfetto, costringendolo a
guardarsi attorno ad ogni passo e tremando ogni notte di fronte al più misero
suono.
Quella
era la sua croce, il destino che da solo si era creato e che, col senno di poi,
forse meritava anche di avere. Quando, quella notte, riuscì a prendere sonno,
sognò di trovarsi su di un campo zuppo di sangue. Attorno a lui pire alte quasi
cinque metri, ardevano alimentate da corpi mutilati e ridotti a brandelli. Il
fumo e la pestilenza di quel rogo infernale gli bruciava negli occhi e nei
polmoni, come un alito fetido che scendeva giù nei polmoni infettando ogni
fibra del suo essere. Non c’erano urla, lamenti disperati o invocazioni di
aiuto, solo morte dovunque posasse lo sguardo.
Improvvisamente,
da lontano, giunse una risata. Non di felicità. Nemmeno di sfida. Era un grido
di vittoria, un esternazione del raggiungimento di uno scopo ultimo dall’atroce
epilogo. Fu l’ultima goccia.
Leonardo
si mise a correre, scappando dall’orrore che lo circondava come un sudario
pesante e insopportabile. I piedi affondavano nelle membra di chi ancora non
era stato gettato nel fuoco e nel sangue che imbrattava ogni ciuffo d’erba. Era
come camminare nella melassa. Correva, sentendo il fiato farsi pesante e
inalando generose boccate di fumo acre, mentre la risata pareva aumentare
d’intensità ad ogni suo passo.
Il
piede s’incastrò a qualcosa, facendolo rovinare a terra con la faccia che
schiantò su una zolla morbida e viscosa. Leonardo tentò di liberare il piede,
tirando e scalciando come un mulo imbizzarrito, e quando si rese di cosa lo
aveva bloccato, urlò.
Uno
di quei cadaveri si era animato e aveva avvinghiato la sua caviglia con due
mani ossute e lacerate in più punti. Uno dei due occhi pendeva fuori
dall’orbita, ancora attaccato da un sottile fascio fibroso di nervi, mentre
l’altro mancava e al suo posto faceva capolino un pozzo nero. La bocca aperta
mostrava due file di denti distorti e sporchi di sangue e un lembo di pelle
staccatosi dalla guancia era scivolato fino a scoprire le ossa della mandibola.
Il
morto strisciava verso la gamba di Leonardo, aprendo le fauci e preparandosi a
mordere la gamba scoperta.
Fu
l’ultima cosa che Leonardo vide, prima di venir destato da una voce che lo
chiamava con insistenza.






