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Rita SimonittoDante tra il ‘pio Enea’ e i conflitti di Odisseo

Da Ennioabate
dante e ulisse
Stavo per pubblicare la “Coda di discussione n.2″ in risposta agli interventi di Banfi, Bugliani e Simonitto sul tema  grandezza di Dante (e di Mandel’štam)” (qui) ma volentieri dò la precedenza a questo intervento di Rita Simonitto che riprende in autonomia alcuni punti cruciali della discussione. [E.A.]

Credo che il punto di questa discussione riguardi il cercare di capire come, quanto (e se) la figura del poeta viene implicata nella scrittura poetica e come, quanto (e se) la sua storia personale e il suo contesto politico sociale vi incidono.
Checché ne dica G. Linguaglossa, (*ma se non esiste la “figura del poeta” ergo non esistono neanche le domande che tu rivolgi a questa figura*) e nonostante la precisazione di Abate (*Penso che tutti si siano accorti che la “figura del poeta” sia in crisi *) la figura del poeta esiste non soltanto perché inserito in una *societas letteraria nazionale* (*che oggi non c’è* – Ennio) ma in quanto ‘è figura’, sta rappresentando qualcosa sia nell’immaginario e sia in un ‘reale’ che, per quanto oggi possa essere una cloaca, permette comunque di operare una sia pur minima, basilare – anche se semplicistica – distinzione in mezzo a tutto ciò che vi galleggia.
Oltretutto, i versi – quali che siano e quale che sia la loro presa sull’effettualità – non vengono scritti dal padreterno il quale, qualora avesse una sua esistenza, dovrebbe essere in tutt’altre faccende affaccendato. E, anche se ammettessimo l’ispirazione della Musa (“cantami o Diva”), essa comunque canta attraverso lo strumento umano che cambia di volta in volta a seconda delle contingenze.

Ma veniamo ai commenti, sempre ricordando che stiamo parlando tenendo d’occhio il rapporto poeta-poesia…
Ennio, nel dibattito con Buffagni in merito all’antinomia ‘signorile/servile’, individua l’importanza dello scopo per cui lottare più di quanto non sia l’importanza del coraggio e delle altre abilità.
E ripropone due domande: * Si lotta per diventare signori? Si lotta per ribaltare i rapporti sociali diseguali e costruire un “mondo migliore”(Liberté, Égalité, Fraternité)?*
E quindi, viene da chiederci: il poeta e la poesia dovrebbero chiarirsi su ciò?

Ennio, a un certo punto dice: *Dobbiamo sapere (o imparare faticosamente) come combattere, quando attaccare o indietreggiare o persino fuggire, ingannare il nemico, tessere alleanze, ecc.*.
Ecco chiamato in causa l’Odisseo omerico, il cui nome è accompagnato da molti aggettivi: polymetis, polytropos, polymechanos.
L’Odisseo che non si getta mai a capofitto nelle situazioni come fanno i suoi compagni, ma che usa dinamiche diverse in luoghi diversi. C’è in questo personaggio una ‘alleanza’ interna tra la sua ‘metis’ (la facoltà di cogliere intuitivamente la situazione e l’adattamento che essa richiede) e il suo essere ‘bastardo’ (così era anche chiamato: il ‘bastardo di Sisifo’): fatto che gli permette di utilizzare il ‘dolos’.
Il ‘dolo’ che per Omero è parzialmente neutro, ovvero implica l’astuzia, la trovata geniale, ma anche il dolo, l’inganno, per Dante invece (che conosceva poco Omero in quanto conosceva poco il greco) il dolo, la fraudolenza assumono, a-contestualmente, una connotazione negativa mutuata anche dalla sua esperienza politica (tant’è che colloca Odisseo nella bolgia dei fraudolenti).
Sorvola pertanto sulla dolorosa ambiguità vissuta dall’eroe, sulle sue ‘follie consapevoli’, i suoi sdoppiamenti che gli fanno sperimentare una tensione interna altissima.
Il ‘topos’ di questa tremenda violenza è rappresentato dall’Odisseo ‘legato’ all’albero maestro della nave. Egli vuole conoscere il canto delle sirene e al contempo resistervi per non sfracellarsi in mare, mentre i suoi compagni, con le orecchie tappate con la cera, non devono udire la seduzione del canto, devono solo ‘remare e basta’ per uscire dai gorghi e in quel modo devono essere esclusi dalla conoscenza (e dai suoi tormenti).
Ma Odisseo viene collocato all’Inferno anche perché ha osato essere ‘empio’, ovvero superare i limiti (rappresentati dalle mitiche Colonne d’Ercole), i confini tra l’uomo e Dio nella ricerca del conoscere come esperienza estrema.
Ma perché poi Dante affida proprio a Odisseo la celebre terzina in cui dice *”Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”*? Dante ci è o ci fa? O fa il finto tonto, o, come diceva Fortini veste i panni del ‘tonto’?
La sfida al limite fa parte della nostra ‘semenza’ ma proprio per questo non è esente da conflitti e contraddizioni.

Il conflitto signore/servo è in primo luogo un conflitto interiore tra il desiderio del raggiungimento di un fine (posizione del ‘signore’ il cui desiderio non deve arretrare di fronte a nulla) e il dover soggiacere ad una realtà non stabilita da lui (posizione del servo).
I mezzi utilizzati indicano il terreno su cui questa battaglia ha luogo.
Essi cambiano se il terreno rimane un luogo metaforico dove tutto questo può essere rappresentato, fatto ‘figura’, e allora il linguaggio diventa un tramite privilegiato. Qui entra in ballo il linguaggio ‘artistico’ perché gode ambiguamente dei due registri: lo svelare e il velare.
Se il luogo diventa invece quello ’campale’, i mezzi passano dall’essere quelli ‘pesanti’ (quali l’arbitrio del più forte, “à la guerre comme à la guerre”), a quelli ‘leggeri’ quali quelli di guerreggiare facendosi precedere dalla propaganda, la ‘fola’ della Libertà, della Fraternità, dell’Uguaglianza e, vittoriosamente ultima, la pluridecorata (di morti) Democrazia.
Scrive Buffagni: * Chi vuole il fine vuole anche i mezzi, ma quasi mai lo sa davvero, e se lo sa di solito non (se) lo dice. Chi vuole il pieno riconoscimento della propria dignità di uomo deve combattere per ottenerlo* e questo si sposa anche con la citazione brechtiana , richiamata da Ennio, *Noi che volevamo apprestare il terreno alla gentilezza non potemmo essere gentili”.
Come volevasi dimostrare.

Intuitivamente Ennio comprende che nella posizione cosiddetta ‘signorile’ di Dante c’è qualche cosa che non gli quadra e pensa di risolvere il problema torcendo il bastone nell’altro senso: rivalutare la posizione ‘servile’. Come se il ‘canto’ che viene dalla posizione signorile avesse un vizio di fondo che bisogna bypassare: quello del dominio. E, immaginando che tutto questo si possa aggirare attraverso * una politica “di servi”, che riscattando se stessi, riscattino persino i signori dal compito – ingrato ma necessario (perché le crisi e le ribellioni mai mancheranno) – di dominare*. Anche se, poi conclude dicendo che tutto ciò potrebbe essere *una frottola o una credenza consolatoria*
Ma vediamo dove ci può portare l’intuizione di Ennio.
Spesse volte Dante è stato associato ad Odisseo rispetto alla peregrinosa ricerca della conoscenza, anche se il Sommo lo ha poi relegato nell’Inferno a causa della ‘fraudolenza’ e della sua sfida a superare i limiti, come abbiamo già detto.
Dante, più furbescamente (absit iniuria verbis), si fa guidare da Virgilio in modo da poter sempre dire: qui lo dico e qui lo nego.
Quel Virgilio che cantò – sia pure a modo suo, ovvero non del tutto ‘servile’ – il peregrinaggio di Enea (esodante anche lui?) per cantare – e giustificare – l’epopea romana che portò al grande Augusto.
Il punto di partenza di questi due ‘pellegrini’ (Ulisse ed Enea) fa capo alla distruzione di Troia messa a ferro e a fuoco dai Greci.
Ma (attenzione! Non sto raccontando come sono andate ‘realmente’ le cose, non ho fatto una ricerca filologica sui testi, ma sto facendo un ‘film’, una rappresentazione sulla base di alcuni indizi sul senso di alcuni movimenti del passato, che forse ci permettono di comprendere meglio anche alcune dinamiche attuali), è come se da quell’evento tragico di feroce guerra partissero due linee direttrici ben diverse:
a) la strada presa da Enea è la strada della rivincita. Enea vuole fondare un’altra grande città che dominerà il mondo, una lunga camminata di conquista che non ‘guarda in faccia nessuno’ (la povera Didone ne farà le spese), e di guerra in guerra – che nemmeno il grande Zeus può fermare ‘perché davanti al destino anche lui è impotente’ – ecco che si arriva a mettere le basi per la costituzione di un impero.
b) ben diversa la strada presa dai greci.
Anche questa sembra biforcarsi. Di qua la strada della depressione colpevole cui segue la punizione divina – ecco allora gli eroi morti o assassinati durante e dopo il ritorno – e, di là, quella intrapresa da Odisseo, e le cui varie tappe rappresentano i gradini – dal più primitivo (dai Ciconi, ai Lotofagi, ai Ciclopi) al più evoluto e complesso – della ricerca del Sé verso una ‘intimità’ consapevole, una novella Itaca purificata dal traditori interni, dai parassiti, da coloro che vivono di rendita, dai senza ‘gloria’ intesa nel senso del kleos.
Sotto quest’ottica, Odisseo rimane un mito aperto perché la ricerca interiore non ha mai fine. Enea, invece, è un mito ‘chiuso su se stesso’, un criceto che gira all’interno dello stesso circuito: distruzione-ricostruzione-distruzione. Questo ci dice qualcosa?
Possiamo aggiungere che nella dialettica servo/signore sia Ulisse che Enea, possono far parte a pieno titolo della posizione ‘signorile’, non sono dei servi alla ricerca dell’emancipazione. Eppure Enea, il ‘pio’ Enea, è ‘servile’ davanti ad un’idea; Odisseo e il suo pro-getto, il portare avanti la sua ‘semenza’, invece no.
Come richiama Buffagni, Dante sapeva benissimo che nobiltà e dominio non sono affatto la stessa cosa, anzi.
Ma la ‘nobiltà’ la possiamo supporre come una ‘datità’, un qualcosa che c’è, non ha bisogno di dimostrazioni (“Signori si nasce!” diceva Totò “e io, modestamente lo nacqui”!). Anche il ‘dominio’ è un ‘dato’ che può appartenere al carattere di una persona, ma ha bisogno di dimostrazioni, di verifiche. Ci sono quelli che ci riescono e quelli che invece no.
Leonardo Sciascia, ne “Il giorno della civetta” riporta quanto dice il boss mafioso don Mariano Arena al capitano Bellodi: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… »
Non saranno certo delle ‘categorie scientifiche’ ma capire se uno è un uomo oppure un quaquaraqua credo che aiuti molto.
Ricapitolando, alla volontà del ritorno, Ulisse ha associato i suoi compagni fino all’ultimo, anche nell’ultima impresa verso il “folle volo” fino a che ha potuto (Omero lo chiama: philetairos: colui che pensa ai suoi uomini). La sua ricerca della gloria non è di tipo personale (après moi, le déluge=non mi importa nulla di ciò che accadrà dopo di me) ma evolutivo: il ‘kleos’ (la gloria) non è solo il risultato di grandi gesta, ma il poter trasmettere qualche cosa a qualcuno.
Questo aspetto legato alla trasmissione mi sembra importante: si lotta per trasmettere non per dominare. Ed è attraverso questo tipo di lotta che si crea una reciprocità, uno scambio – sempre diseguale – ma produttivo di effetti.

R.S.
03.02.2014


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