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Ritorno a Londra

Creato il 06 luglio 2012 da Albix

Ritorno a LondraCapitolo VI

The Western Counties

Il sabato successivo, alla sera, feci il mio ingresso all’ ”Western Counties”, un pub sito nel quartiere di Paddington, di cui Nancy mi aveva dato l’indirizzo, descrivendomelo come un ritrovo per giovani che amano la musica e il divertimento.

C’era ancora  poca gente nel locale: qualche avventore sorseggiava pigramente un drink seduto al bancone del bar, massiccio e lunghissimo, dando le spalle all’ampio salone che completava  il piano terra del locale;   al centro del locale, due giocatori, gessando meticolosamente le loro stecche, si accingevano a cominciare una partita di biliardo e,  non molto discosti,  quasi a ridosso della parete opposta al bancone della mescita, sopra un’ampia  pedana in legno scuro, spiccavano tre chitarre elettriche sfolgoranti,   una stupenda batteria, alcuni microfoni ed altra strumentazione da concerto.

Regnava un’aria di intimità e di rilassatezza. Pagai una mezza pinta di birra e mi accinsi a fare un giro di perlustrazione. Per delle ampie scale, di lato alla pedana che ospitava  gli strumenti musicali, giunsi al primo piano; da lì, sporgendomi appena dalla balaustra in legno che ne delimitava tutta la circonferenza calpestabile, ebbi un colpo d’occhio della situazione sottostante; dal mio punto di osservazione potevo vedere, di fronte, il bancone del bar e, proprio sotto di me, i giocatori che studiavano ed effettuavano i loro colpi di stecca e le palle che ruotavano vorticosamente sul panno verde; se mi sporgevo ancora un poco, spingendo lo sguardo più sotto, scorgevo la pedana con gli strumenti musicali ancora in penombra.

Delle brevi scalette, alle mie spalle, portavano ancora più su, a degli ampi ed accoglienti “separés”, con dei tavolini circolari in legno e dei divani con lo schienale sulla parete che, assieme a degli sgabellini in legno, fornivano i numerosi posti a sedere. Anche dai posti più prossimi alle scalette (in pratica quelli laterali) si riusciva a scorgere il piano sottostante.

Svuotai la mia birra e dall’inserviente, che accolse con un sorriso il mio boccale vuoto, ebbi la conferma che quella odierna era la serata del concerto. Uscii quindi a telefonare a degli amici che non vedevo da un pezzo. Mi rispose Giampiero, un ligure che avevo conosciuto a casa di Tommaso, venuto su a Londra nel suo stesso periodo. Con Tom condivideva la lunga   militanza italiana nei gruppuscoli della sinistra extra-parlamentare; lo stesso travagliato percorso ideologico: dalle confuse militanze rivoluzionarie tra i castristi, maoisti, marxisti-leninisti alle matrici di ispirazione nostrana, dall’ideologia meno vaga e più concretamente calate nella realtà italiana, come Lotta Continua, Servire il Popolo e Autonomia Operaia, sino alla graduale ma inesorabile disillusione; all’amara e sonora sconfitta. E senza neppure attendere l’appello del ’77 si era ritirato anche lui dal fronte, a leccarsi le ferite, a ricostruirsi.

Al contrario di Tom, però, l’antica rabbia politica e rivoluzionaria di Giampiero si era dissolta nella nebbia londinese e se per gli altri della sua generazione Londra era stata un ponte verso la filosofia orientale, lui, invece, aveva continuato a coltivare,  in italiano e in inglese, le sue letture giovanili; ed io non disdegnavo davvero di intrattenermi con lui  in lunghe dissertazioni serali, a casa sua, dopo cena, quando fra una pipata e l’altra, sprofondato in un’ampia e comoda poltrona, con una pacatezza disarmante, ma nel contempo accattivante, mi profetizzava ancora l’avvento al potere del proletariato come soluzione unica ed inevitabile dei conflitti di una società capitalistica già da tempo ormai alle corde. Ed era tanta e tale la forza e la sicurezza delle sue argomentazioni che io, neanche una volta, neppure per un solo istante, fui capace di dubitare che Giampiero avrebbe esitato, al momento della resa dei conti, a rinunciare alla sua posizione, già di fatto acquisita, di dirigente in ascesa di una società multinazionale di trasporti, con il sorriso di chi si sente vincitore.

Ma ciò che del suo passato bohemien e rivoluzionario sembrava sopravvivere in lui in modo più autentico e forte, era la sua ragazza Michelle.

Michelle era una parigina. I due si erano conosciuti a Londra e stavano insieme da sempre.  Il suo fascino non era quello banale o comunque ordinario che di solito circonda certe francesi dal fisico longilineo, un po’ diafane, dai tratti del viso eternamente ingenui e gentili; esso le derivava piuttosto da quella sua aria allegra e spensierata, sintomatica di chi riesce a vivere giorno per giorno, senza particolari patemi d’animo legati a vicende sentimentali, a questioni di lavoro o magari a complicazioni di tipo esistenziale. Tanto più che questo suo atteggiamento di disincantata non chalance, se non proprio di condotta volutamente informale e controcorrente, risaltava maggiormente   per contrasto con il comportamento quasi serioso e sicuramente calibrato e formale che Giampiero andava ormai sempre più assumendo.

Michelle,  d’altronde, era una pittrice e si guadagnava da vivere vendendo i suoi quadri e facendo ritratti a Portobello e negli altri grossi mercatini rionali londinesi; le sue frequentazioni quindi consentivano a Giampiero di non perdere del tutto i contatti con un certo tipo di cultura e di mentalità alternative, alle quali, anche se non nel profondo del suo essere, era stato comunque legato.

-“ Chi non muore si risente!” – fece Giampiero al telefono ricambiando il mio saluto- “Cosa hai fatto in tutto questo tempo?”
-“ Ho trovato un pub che assomiglia ad un anfiteatro!” – risposi io ridendo- “ e stasera si esibisce un gruppo Rock con le palle quadrate. Che ne dici?”
-“ Dico che stavamo pensando di andare qui all’angolo a farci due birre; però l’idea di un po’ di buona musica mi starebbe anche meglio. Ma dove sei tu?”-  mi chiese poi traducendo dall’inglese, come talvolta gli accadeva.
-“ Io sono qui alla stazione di Paddington, in un negozio di giornali.
-“ Ho capito. Da Notting Hill è un passo. Aspettami che vengo di certo. Magari verranno anche Michelle ed una sua amica parigina che sta ospite da noi. Ci vediamo subito!”

E arrivò davvero subito; il tempo di sfogliare distrattamente qualche rivista sotto gli occhi arrossati e attenti del titolare dell’edicola, un pakistano di mezza età, dalle guance grosse e carnose.

-“ Ciao!” – mi fece con un gran cenno Giampiero, mentre giungeva, in lontananza,  dall’unica barriera di uscita della Metropolitana. Anche Michelle, che già conoscevo, mi salutò con la mano per aria. Mi presentarono quindi  Martine, una ragazzetta non tanto alta, che vestiva dei jeans su una camicetta bianca ricamata, delle scarpe “Adidas” bianco-verdi ed un nastrino azzurro alla fronte che le cingeva i capelli castani dal taglio corto. Abbozzò un sorriso sui denti un po’ irregolari, pronunciando un “hello!” strettissimo e arrestandosi,  con una mano  che teneva il giubbotto riverso sulle spalle e le dita dell’altra infilata nella tasca dei jeans, con il solo pollice di fuori. Dopo alcuni convenevoli chiesi a Giampiero notizie di Tommy che non avevo più visto da un pezzo.

-“ No, è un pezzo che non ci si vede; l’ultima volta venne a trovarci con la ragazza, ma stava davvero giù!”
-“ Eh, sì! Sta maturando importanti decisioni; forse rientra giù, in Italia” – dissi io in tono forzatamente scherzoso.
-“ Se è per questo io questa decisione l’ho già maturata!” – Lo guardai interdetto.- “ Come, non sai ancora la novità?” – proseguì arrestando la marcia, meravigliato della mia stessa sorpresa. –“ Da poco mi hanno contattato dei dirigenti italiani della nostra ditta; pare che abbiano intenzione di aprire un ufficio di rappresentanza proprio a Genova, nella mia città, pensa un po’, e stanno cercando gente esperta e fidata che parli bene l’inglese per allargare la rete dei contatti e quindi……….”
-“ Ehi! Punti davvero in alto, allora. Magari diventerai anche tu un ‘Big Boss’! – feci io , canzonandolo.
-“Macché, non so neppure se mi piacerà. Ho bisogno di cambiare aria, questo sì! E’ una vita che sto qui a Londra e penso che il mio viaggio sia concluso. Eppoi a te non è mai venuta l’idea di avere un figlio?”
-“ Che c’entra questo?” – interloquii riprendendo il cammino che aveva un’altra volta interrotto. – “ Il bambino te lo puoi fare anche qui, se vuoi.”
-“ No! Non sarebbe lo stesso. In questa città c’è troppo caos. Non è l’ambiente ideale: con tutto questo razzismo che c’è ancora, la violenza, lo smog, capisci? Io ho bisogno di un’altra situazione; e anche a Michelle farebbe bene cambiare aria…….”

Si voltò istintivamente all’indietro e si videro sopraggiungere Michelle e Martine che parlavano fitto, fitto, tenendosi sottobraccio.
-“ Cosa sono questi segreti?”- gli chiese Giampiero.
-“Niente che ti riguardi” – rispose Michelle con quella sua aria, allo stesso tempo  impertinente ed ingenua.

Intanto eravamo giunti in prossimità del pub che si stagliava ad angolo su due strade; di fronte al lato destro, il confine estremo di una piccola piazza delimitava un ampio parcheggio per motociclette  dove  ora si notava un gran numero di mezzi in sosta; moto di tutte le cilindrate, marchi e colori, con una prevalenza di medie cilindrate della Triumph  e della  Honda di colore rosso e blu.

All’ingresso, mentre percorrevamo lo stretto corridoio verso la grande sala a pianterreno, notai in controluce l’alone del fumo che ne proveniva, insieme ad un soffuso ma intenso brusìo di animazione. La sala si era infatti nel frattempo riempita. Tra gli avventori, come preannunciato dal parcheggio esterno, vi erano numerosi “moto-rockers”, detti anche “speedies” a causa dell’uso frequente di anfetamine, da essi predilette tra tutte le droghe allora in circolazione per la particolare carica che danno, commerciate di frodo in pasticche simili a dei cachet per il mal di testa  e soprannominate in gergo londinese “speeds”. Il loro abbigliamento tipico consisteva di scarponcini robusti, jeans (preferibilmente lisi e sdruciti), maglietta di cotone a maniche corte ed un giubbotto, anch’esso in jeans  (o in alternativa in pelle nera), solitamente ricoperto sulle spalle di piccole  borchie di metallo dalla forma tronco-conica. Non di rado quindi, questo abbigliamento eccentrico, unitamente alla loro alta statura, le barbe nere su cui staccavano ancora di più i lunghi capelli biondi, gli conferivano  un aspetto di vichinghi metropolitani.

Ciò nonostante, si trattava di gente abbastanza pacifica e tutto sommata meno settaria dei più variopinti e folkloristici “punks” che già all’inizio del secondo lustro degli anni ’70 cominciavano a fare le loro prime scioccanti apparizioni nelle strade londinesi.

Anche nella sala lo spettacolo era mutato: un sacco di giovani si accalcavano ora al banco di mescita, dietro al quale numerosi inservienti, anch’essi per lo più giovani, che intramezzavano gli impegni di studio o di altri lavori, con gli straordinari del sabato e della domenica, correvano da un punto all’altro del lungo bancone, soddisfacendo celermente le   concitate e varie richieste dei numerosi avventori.

Attorno alla pedana, ora illuminata, con i musicisti già sul palco che davano gli ultimi ritocchi agli strumenti, sedeva a semicerchio una folla discreta che ingannava l’attesa ridendo e scherzando allegramente tra un sorso di birra e una fumata.

Fra il bancone e la pedana,   in mezzo alla sala, altri giocatori   si erano succeduti al biliardo e tiravano sotto gli sguardi di amici e appassionati. Oltre la pedana, nella parete destra, erano adesso visibili dei divani che prima non avevo notato.

Guidai i miei amici direttamente al primo piano attraverso le ampie scalinate che già cominciavano a riempirsi di spettatori, quasi una coda naturale di quella folla raccolta attorno alla pedana. Numerosi tavolini degli scomparti erano stati occupati, e sui loro ripiani si notavano ampie scorte di birra e drinks.

Giampiero capì subito la situazione e pensò bene, seguita a ruota da Michelle,  di tornare indietro dopo averci chiesto che cosa intendessimo bere. Occupammo dei posti all’estremità dei divani a spalliera; dal mio posto scorgevo una bella porzione di pedana, dove un uomo dal fisico atletico con indosso una calzamaglia nera e aderente, con i capelli lunghi e neri che terminavano raccolti in una folta coda, provava l’efficienza dell’impianto audio con battutine di stile.

-“ Quanto tempo è che stai a Londra?”- chiesi rivolto a Martine, che aveva preferito accomodarsi su uno degli sgabellini circolari di legno scuro, che si trovavano disseminati attorno ai tavoli.
-“Quattro mesi”- rispose lei dopo un conteggio bofonchiato a mezza voce e tirando fuori dalla borsa delle strane sigarettine corte e sottili da un pacchetto bruno e schiacciato.
-“E cosa fai di bello, qui a Londra?”- insistei io, osservandola mentre aspirava una voluttuosa boccata dalla sua strana sigaretta.
-“ Ho cominciato due settimane fa un nuovo lavoro; distribuisco delle riviste femminili all’uscita della Metro, ma spero di trovare qualcosa di meglio; anche perché, lavorando  due volte alla settimana, non guadagno abbastanza, capisci?”
-“Non preoccuparti”- le risposi io tra il serio ed il faceto, per sdrammatizzare quell’aria un po’ triste e preoccupata che, come più tardi capii, era uno specchio del suo più intimo essere, piuttosto che lo stato d’animo di un momento.- “Fai parte della grande famiglia degli “street-traders” e questo non dovrebbe farti sentire sola, quantomeno !”.
-“ Ma io non mi sento affatto sola!- protestò lei, sempre con quel suo faccino malinconico.
-“Parigi non ti manca, dunque?”
-“ No di certo!”- fece Martine convinta- “sono scappata da un noiosissimo lavoro da segretaria; i miei genitori sono dei Battisti che osservano e pretendono di fare osservare delle rigide regole di vita; in  più avevo un ragazzo che voleva dominarmi in maniera prepotente e possessivo come non mai. Capisci perché non posso avere certo nostalgia……….”
-“ E com’è che sei finita a Londra? – le chiesi ancora dopo averle fatto notare un tipo poco distante che sembrava uscito dritto, dritto dal film “Woodstock”, con una fascia larga che gli fermava i capelli lunghissimi e con numerose collane  che gli pendevano al collo su una maglietta rosa ed uno sguardo allucinato, fisso nel vuoto mentre ruotava le mani aperte, lentamente, come in trance, seguendo, nei movimenti del suo corpo, una musica che solo lui doveva sentire.

Rise di gusto, nascondendosi la bocca con la mano prima di rispondere.

- “ Mi rivolsi ad un’agenzia “au pair”, e così sono venuti a prendermi all’aeroporto. Una famiglia di insegnanti con due bambini, con casa nel verde, su,  a North Finchley, sulla Northern Line, conosci? Mi toccava di lavorare sei giorni  alla settimana, con loro, i grandi, sempre fuori ed io in casa a guardare   i bambini ed a mangiare, o meglio a non mangiare, l’impossibile cucina inglese, e quando, qualche volta, riuscivo ad uscire, la sera, mi davano anche un orario per rientrare, peggio dei miei genitori. Senza contare che mi toccava anche fare le pulizie alla stanza e alla roba dei bambini! Il tutto per nove, misere sterline alla settimana. Mi ha tolto dai guai la mia amica Michelle………….”

Come evocata dal racconto di Martine ecco Michelle apparire da lontano. Lancia un gridolino festoso, fa largo per sé e per Giampiero fra la calca di persone che occupano ormai ogni spazio disponibile; sembra un’equilibrista ad otto mani, come la dea Kali. Cerco di andarle incontro, cercando di dimenticare l’ignobile sfruttamento delle ragazze “au pair”. Riesco a prenderle qualche bottiglia che stringe sotto le braccia; altre ne spuntano da tutte le parti. Sbuffa con il viso in fiamme.

-“ Questa è una bolgia. Ma dove ci hai portato?”- scherza Giampiero, cercando di fendere la folla.
-“ Sei tu che sei un elefante artritico!” – gli ribatto nello stesso tono scherzoso.

Michelle  annuisce provocante, ironizzando, come fa da qualche tempo, sulla sua mole sempre più massiccia. E’ un po’ di tempo che noto queste frecciatine tra i due, tanto è che mi era sembrato il sintomo di una crisi in embrione. Ma non deve essere così. Non si programma un rientro insieme se il rapporto non funziona. O sì? Magari è solo un “escamotage” per superare i problemi, per rimandarli , per non vederli, tentando di risolverli grazie al passare del tempo; un alibi psicologico, perché si finisce con attribuire i problemi all’ambiente, a Londra, alla mancanza di figli, alla precarietà del lavoro o chissà a cos’altro.

-“ Sei riuscito a farla parlare un po?’” – mi chiede Michelle guardando Martine e sistemandosi sul divano a gambe larghe.
-“ Accidenti se ha parlato!Non ha taciuto un solo istante da quando ci avete lasciati soli!”.

Scherziamo ancora a lungo. Sommando le nostre risa a quelle innumerevoli ed indistinte dei diversi ambienti del locale. Ad un tratto, come  per incanto, si staccano i circuiti auditivi ed improvvisamente cala il silenzio. Bastano pochi accordi di chitarra, e senza alcun preavviso, tutti tacciono. Il “clou” della serata ha inizio. L’ascolto è religioso, raccolto, mistico. Ognuno segue il concerto a modo suo. Chi sognando, chi battendo il ritmo con un piede, in un improvvisato ed improbabile solfeggio; chi tamburellando le dita da qualche parte e chi scuotendo la testa; ma tutto e sempre a suon di musica e nel totale raccoglimento. Si inizia con un brano solo musicale: la base ritmica di basso e batteria si fonde con i “riffs” della chitarra solista, mentre quella d’accompagnamento amalgama il tutto. Poi si inserisce il cantante, con la sua voce roca e suadente che narra i temi classici del blues, ma in forma di rock, creando una buona miscela musicale.

Il cantante  alterna ora il canto coll’armonica a bocca, mentre gli altri musicisti mostrano di saper suonare anche il sassofono ed il violino: viaggio con la mente lungo sconfinate autostrade, da una parte all’altra della costa americana; vedo il sole sorgere e lo vedo tramontare; piango il tempo andato, le donne e gli amici che mai ritorneranno. Il sax, il violino e la chitarra solista dialogano d’incanto; l’armonica a bocca, struggente e sublime,  tocca le corde più suggestive dell’anima.

Tra un pezzo e l’altro si scatena la bufera: applausi, fischi, urla, rumori di piedi che pestano, lattine e boccali ritmati sul tavolino: un tripudio di approvazione e di felicità. All’intervallo, dopo circa un’ora di buona musica  rock-blues, mentre l’hippy dalla fascia in testa e dalla maglietta rosa continua a palpare rapito un’aria sempre più densa di odori e di fumo, si avvicina a Giampiero un bassetto magrolino con i capelli radi sul davanti ed una barbetta rossiccia e disordinata che fino ad allora se n’era rimasto tranquillo, seduto poco distante da noi. Parlottano per un po’, sottovoce.

-“ Cosa voleva?” – chiede incuriosita Martine.
-“ Mi ha chiesto se voglio dei funghi….” – risponde Giampiero
- “ Funghi??? Come sarebbe a dire funghi!?”- interloquisce Martine – “Cosa se ne fa uno dei funghi qui, a quest’ora?”
-“Il sugo,  naturalmente!” – interviene Michelle, che la sa lunga. E in questo stesso istante il suo sguardo si posa su un tipo seduto al centro di un separé, poco distante dal nostro. Io, dalla mia posizione l’ho già notato assai prima: sul suo tavolino vi è un numero indefinito di lattine azzurre ed un continuo via-vai caratterizza il “entourage”. Lui è un tipo dalla testa rossa, ricciuta, dai tratti fini, la carnagione chiara, lentigginosa.

-“ Marcus! Ehi, Marcus!” – esclama Michelle al suo indirizzo, richiamando la sua attenzione con il braccio destro sollevato.

Il tipo si gira lentamente, nascondendo, male, il suo disappunto, anzi, fingendo, altrettanto male, la sua indifferenza; ma quando riconosce Michelle il suo viso si illumina di colpo.
Si alza e viene verso di noi. E’ alto, atletico! Saluta tutti con un gioviale “hello”, sorridendo sui denti un po’ gialli, ma piccoli e regolari. Ora intreccia un dialogo fitto con Michelle, dopo che si sono baciati affettuosamente, come due vecchi amici, in grande confidenza.
C’è un’intesa sottile e misteriosa, tra i due, e se ne accorge anche Giampiero che, mentre parla con me della situazione politica in Italia, di non so quale governo, presieduto da chissà quale primo ministro, caduto ancora una volta, ingloriosamente, in Parlamento, sbircia ogni tanto i due, senza mai perderli di vista, cercando di cogliere quello che si dicono. I suoi sguardi di gelosia mi richiamano le voci sulla loro crisi. Mi impongo di concentrarmi totalmente sulla discussione.

Dico che ormai non mi aspetto più niente di buono dai politici italiani, dopo poco più di un secolo di cattiva gestione dall’unità politica, cui non ha fatto seguito nessuna unità sociale. Tocco evidentemente temi cari a Giampiero.

-“ Che c’entra”- mi risponde – “ ciò che tu dici; che il meridione è rimasto borbonico; che l’Italia è un mosaico mal composto di popoli dai problemi troppo diversi tra loro per potere essere trattati con la stessa medicina di un medesimo dottore. E’ il movimento operaio e all’interno di esso che queste diverse genti, come tu le chiami, si identificano e si uniscono a formare un tutt’uno!”.

Controbatto con foga che ormai, io, non solo non credo più al movimento operaio, ma non credo più neppure al modello di organizzazione statuale, ereditato dalla rivoluzione francese, con gli stanchi riti della democrazia rappresentativa indiretta…..

-“ Tu sbagli a prendere come punto di riferimento la Rivoluzione Francese. La vera, unica rivoluzione da cui rimbastire il discorso è la rivoluzione………”
-“ Rivoluzione? Il sabato sera sono banditi tutti i discorsi seri”- interviene allegramente Michelle, che nel frattempo si è separata dal suo amico, senza fargli concludere la frase – “ Guardate invece che cosa mi ha regalato Marcus!” – e ci mostra una pallina nera tra l’indice ed il pollice.- “ Ci pensi tu?”- fa rivolta a me.
-“ No, ci penso io” – si offre pronto Giampiero. – “A proposito, chi era quel tipo? “- prosegue con aria indifferente, mentre di già armeggia abilmente con le cartine sotto il tavolo.
-“ E’ un mio buon cliente!” – risponde Michelle, con un’aria civettuola- “ Viene da Rotterdam, ma sono tanti anni che vive qui a Londra. L’ho conosciuto a Camden Lock dove gestisce uno “stall” di abbigliamento con certi suoi soci inglesi. E’ un po’ matto o quantomeno un originale: è sempre fumato perso, dalla mattina alla sera, perché, dice lui, crede nel fumo, bandiera di pace e fratellanza tra i giovani!”
-“ Se è per questo” – interviene in tono caustico Giampiero – “ io ho conosciuto dei fumatori che erano degli emeriti stronzi; inoltre non mi sta bene neanche tutto il gran commercio che si fa del fumo…….”
-“Beh, fintanto che resta illegale, il commercio è redditizio; soprattutto per i grossi spacciatori che non ci pagano sopra neppure le tasse; basterebbe che lo legalizzassero. Sembra quasi che i politici abbiano paura della diffusione del fumo……” – dico io per smorzare il tono della discussione tra i due.
-“ Ma non sembrano averne altrettanto dell’eroina”- fa duramente Giampiero, ricordandosi forse degli amici persi su quella via. – “Ti ricordi di Pino, Michelle?, quello che venne da noi l’estate scorsa,? Mi scrive che pare fatto apposta: quando cresce la tensione sociale, in Italia, il fumo sparisce dalle piazze e si trova solo l’eroina, a volontà, capisci? Ma ci vogliamo mettere in testa che con l’eroina vogliono solo distruggerci? Lo accendi tu?”- mi chiede quindi in tono più pacato, porgendomi un bel “joint” formoso.
-“ Spetta a Michelle, veramente”- osservo io passandoglielo, dopo averne bruciato la punta con l’accendino.

Martine intanto chiede a Michelle se ha ben capito il tema della discussione e, dopo le sue spiegazioni, dice che anche molti rappresentanti del movimento rock sono stati stroncati misteriosamente dall’eroina e butta giù lì i nomi di Jimi Hendrix e di Jim Morrison.
Aggiunge anche che la preoccupa un po’ questo connubio apparentemente molto stretto tra il movimento rock, la sua musica, gli artisti, i fans e le droghe, tutte le droghe, da quelle più  leggere alle altre più pesanti e pericolose.

Intanto il “cannone” girava. Il fitto brusìo nella sala era interrotto da scoppi di risa e sprazzi di allegria, mentre una densa cappa di fumo saliva dal piano sottostante verso il soffitto, condensandosi sempre più. Un via-vai concitato e frenetico mi indicava che gli ultimi avventori stavano ancora rifornendosi di bevande al bancone sottostante.

Mentre il concerto aveva ripreso i suoi ritmi, con qualche abile variazione vocale della voce solista, mi resi conto d’un tratto di avere la gola asciutta e la bocca impastata, al punto da non riuscire quasi a parlare, avvedendomi nel contempo che le nostre birre erano pressoché intatte, sul tavolino di fronte a noi.

Tracannai direttamente dalla bottiglia una lunga sorsata di Carlsberg Special Brew. Sentii quel fresco liquido nella bocca, scendermi lungo la gola, lo seguii mentalmente giungere allo stomaco e da lì diffondersi con calore; pensai ai piccoli rivoli quando si immettono nei torrenti e nei laghi; ai grandi fiumi che sfociano lenti ma inesorabili nei mari ed ai mari tutti collegati agli oceani, come un unico grande flusso di energia, avvolto nelle impenetrabili sinergie cosmiche; e se anche i conduttori del nostro sangue, dai più piccoli vasi alle  più grandi arterie, convergono in unico centro; e se i nostri corpi, da millenni pulsano nell’aria, interagendo attraverso immateriali contatti di forza vitale, talvolta contrastanti e contrapposti ma guidati pur sempre verso un’unica direzione; se il nostro cervello contiene il nostro presente assieme al passato e, chissà, forse anche al futuro, allora dov’è, mi chiedevo, il centro dell’Universo? Il cuore pulsante dell’umanità? Il centro del Tutto che Buddha cercava nei tortuosi sentieri della mente?

Era forse questo che cercavano i miei fratelli, fuggendo dalle certezze materiali dell’occidente, sulle vie incerte dell’Oriente? Ma perché cercarlo con l’inganno degli acidi, con l’illusione dell’oppio? Perché con l’eroina? E se l’Oriente, da millenni ha assorbito   l’ urto devastante dell’oppio, le più inesperte e deboli civiltà dell’occidente, sapranno sopravvivere ai colpi delle sue più allucinanti e micidiali essenze?

Portatemi lontano, amici, ma guidatemi, non perdetemi, amatemi, come un padre ama il suo figlio prodigo, perché io voglio un sogno dal dolce risveglio, una speranza che porti alla verità, un viaggio che abbia un suo ritorno  all’origine della vita.


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