Ritorno a Londra – X
Creato il 16 settembre 2012 da Albix
Capitolo Decimo
Teddy Boys and Teddy Girls
Così avanzava imperterrita l’estate londinese, bizzosa signora imprevedibile e stramba.
Ad un certo punto, proprio a cavallo di Ferragosto, sembrò che avesse definitivamente deciso di darci il suo arrivederci all’anno venturo, quando un’impenetrabile coltre di nuvole scure nascose ai nostri occhi la vista della stella madre, lasciando cadere improvvisi e violenti acquazzoni alternati a piogge sottili ed insistenti.
Le mattine di sole, coi parchi risuonanti delle grida giocose dei bambini ed i tappeti verdi puntellati di corpi seminudi stesi al sole (che al vederli, solo di passaggio, mi provocavano dei brividi di freddo, stemperati dalla mia giacchetta di tweed e comunque dalla gioia per la festosa luminosità del chiarore solare) sembravano oramai un ricordo lontano.
Fu come la fine di un sogno. Il mio animo seguì l’evoluzione del tempo, divenendo repentinamente ombroso ed irritabile, mentre il mio corpo fu come avvolto da una cappa di irreale vacuità, al punto che una volta mi accadde di risvegliarmi da un insolito riposo pomeridiano e, dopo avere osservato il cielo dalla finestra della mia camera di letto, preparatomi di tutto punto, già mi avviavo al lavoro come se fosse stato mattino e solo per strada mi ricordai che in quel giorno, c’era già stato un mattino.
Continuò così per diversi giorni e, quando non pioveva, il cielo permaneva oscuramente minaccioso, con il suo brontolìo cupo e lontano che non lasciava presagire niente di buono.
E chi tornava dalle ferie rimpiangeva il sole ed il mare delle Canarie, di Malta o delle Baleari e chi doveva ancora andarci contava trepidante i giorni che lo separavano dalla partenza, sperando che almeno oltre la Manica il sole non fosse divenuto così avaro ed arcano.
Ma noi, noi che eravamo lì prima e che restammo lì anche dopo, gioimmo più di tutti quando di colpo, una mattina, senza che i giornali e la televisione lo avessero preannunciato, anzi, contro le loro stesse previsioni, il sole cacciò le nuvole nere dal cielo e riportò la speranza e la gioia nei nostri cuori.
Tutto riprese come prima.
-“ Te l’avevo detto!” – mi gridò Terry dal furgone, mentre riprendeva con buona lena il giro dei rifornimenti.
Ketty, la manager italo-inglese, che si alternava con Abraham nella direzione del negozio che ospitava le nostre macchine, di nuovo libera dall’oppressione della sinusite, tornò a confidarmi, a metà tra inglese e d italiano, le sue pene amorose e non, e per la strada tornò l’allegro via-vai di sempre, che per la verità non si era mai interrotto realmente, ma solo con il ritorno del bel tempo, riprese ad essere spensierato e gioviale.
Forse perché in precedenza si erano mimetizzati nell’oscura atmosfera diurna, ma con il ritorno del sole cominciai a notare per la piazza, sempre più numerosi, dei teddy-boys.
Questi teddy-boys erano facilmente riconoscibili per il loro caratteristico abbigliamento: scarpe in gomma nera con la suola ed il tacco della stessa altezza e con i lacci rossi; pantaloni pure neri, stretti nelle caviglie, giacche dello stesso tessuto dei pantaloni, lunghe quasi sulle cosce, con i bottoni rossi ed i risvolti dal taglio classico, in seta nera, indossate su camicia della stessa tinta, su cui spiccava, fissata al collo da una borchia copribottone in metallo bianco, una sottile cravatta a nastrino di colore rosso. I capelli li portavano sempre ed inappuntabilmente brillantati o comunque impomatati, pettinati a spazzola, non troppo lunghi sul collo, quando non proprio alla ‘umberta’, mentre le loro basette si allungavano, assottigliandosi gradualmente, sino alla mandibola. Insomma, tante, piccole, anonime copie del celeberrimo Elvis Presley.
Presi uno ad uno, costoro, potevano anche risultare dei bravi ragazzi, ma in gruppo diventavano a volte violenti e non di rado si armavano di catene, manganelli ed anche di coltelli, quando la loro vena di fare bravate, era particolarmente accentuata. Anche se in genere il loro modo agire era più subdolo. Mi era stato raccontato infatti che spesso e volentieri introducevano nei loro giri degli sprovveduti in cerca di amicizia e compagnia e, dopo averli fatti bere e divertire, li massacravano di botte, così, per puro diporto.
Non so se Leicester Square rientrasse o meno in un loro periodico itinerario oppure se fossero capitati lì per avventura, il fatto è che mentre prima se ne vedeva qualcuno ogni tanto, ora, certi giorni, invadevano la piazza a frotte di cinque, sei e talvolta anche più membri, tra i quali ve n’era sempre qualcuno che teneva in mano un mangiacassette che diffondeva la stessa musica che vent’anni prima aveva segnato lo spartiacque tra la vecchia e la nuova frontiera del movimento rock, con la sua carica sessualmente rivoluzionaria, ma che ora, tanto più dopo la morte del grande cantante, suonava ripetitiva, datata e stantia.
Un profondo ed oscuro odio opponeva questi Teddy-boys ai Punks dai capelli variopinti sui tagli fantasiosi e dall’abbigliamento eccentricamente e provocatoriamente sado-maso, rivalità che sfociava di tanto in tanto in risse furibonde, risolte solo dall’arrivo della polizia che provvedeva ad imbarcare i più scalmanati di entrambe le folkloristiche fazioni, nei capaci ed accoglienti cellulari, convincendoli opportunamente con ben assegnati colpi di manganello e convincenti spintoni e strattonamenti a desistere da quelle violente riunioni.
Le donne del loro giro si distinguevano solo perché stavano assieme ai “Red Crows” (come aveva definito qualcuno quei pittoreschi e buffi personaggi, senza tempo e senza troppa personalità, vestiti di nero con qualche macchia svolazzante di rosso ), perché per il resto, a parte qualche eccezione, non avevano un abbigliamento che le contraddistinguesse. Indossavano in genere dei comunissimi jeans, con scarpe a tacco alto, giubbotto nero in pelle e camicia bianca. Infatti non mi risulta che per le loro donne fosse in auge l’espressione ‘teddy-girls’, anche se questo poteva essere un nome appropriato per chi condividesse gusti musicali e sentimenti con quegli stormi cittadini e stanziali.
Quando venne a comprare da me il gelato una di loro, un po’ per curiosità, un po’ perché, avendola notata in precedenza in mezzo al branco, ero stato colpito dalla sua fascinosa eleganza, non mi feci sfuggire l’occasione di fare la sua conoscenza.
Sin dalle prime parole che le sue labbra emisero, accompagnate dalle carezzevoli onde di luce dei suoi occhi castani, il mio spirito venne investito da una corrente eterea di palpitanti vibrazioni e, pur senza neppure sfiorarci, mi parve che i nostri cuori prendessero a pulsare all’unisono. Era come se un’invisibile, trepidante cortina ci avesse avvolti, mentre i nostri dialoghi emozionati, sdrucciolavano su dolci parabole di suoni che penetravano in noi senza intermediazione alcuna, quasi avessimo cessato, per incanto, di essere udito, vista, tatto e fossimo divenuti due poli di ricezione e trasmissione compulsivi e diretti.
Nemmeno le meccaniche prestazioni che fornivo agli occasionali clienti riuscivano ad interrompere quel magico flusso di energia vitale.
Fu quando le chiesi, intempestivamente, di uscire con me, una sera, che quell’incanto si spezzò e la ragazza parve di colpo tornare alla sua ordinaria realtà.
Mi rispose con un guizzo di paura negli occhi, che il suo ragazzo era uno dei capi di quei teddy-boys e che, geloso e violento com’era, ci saremmo pentiti tutti e due di un eventuale sgarro commesso nei suoi confronti.
Nella mia giovanile ed incosciente esuberanza, fui così pronto e sincero nel risponderle che né il suo ragazzo, né la sua banda di ‘cornacchie’, avrebbe potuto in quel momento frenare il trasporto che provavo per lei. Dovette rendersene conto, Liz, nei cui occhi si riaccese per un attimo quello sguardo mite e dolce che mi aveva catturato dianzi. Pronunciò in tono suadente ma generico un ‘May be, who knows?’ e salutando con la mano si allontanò rapidamente. Ed io sentii dentro di me un’infinitesima frazione del mio tempo morire e seppi in quel momento che non l’avrei mai più rivista.
Potrebbero interessarti anche :