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Ritorno alla Guerra Fredda? Russia e USA nell’attuale contesto internazionale

Creato il 09 luglio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Nicolò Fasola

Negli ultimi mesi si dà sempre maggior voce nel dibattito pubblico al ritorno di uno scenario da Guerra Fredda, dipingendone lo spettro nel quadro delle crescenti tensioni tra l’Occidente – Stati Uniti in particolare – e la Russia di Putin, costellate di continui rimbecchi e reciproche prospettive di dispiegamenti nucleari. Di un tale ricorso alle chiavi di lettura storiche si può invero tracciare una lunga lista già nei confronti degli stessi rapporti con la Russia, partendo da quando Putin venne riconfermato alla presidenza della Repubblica nel 2004 – anno della cosiddetta Rivoluzione Arancione in Ucraina, oltre che dell’ingresso nella NATO di sette Paesi appartenenti al Patto di Varsavia –, passando per la prima crisi energetica tra Mosca e Kiev del 2006 e giungendo alla guerra russo-georgiana del 2008, fino ad oggi. Una simile analogia, tuttavia, si presentava e si presenta come totalmente inappropriata non soltanto in termini storici e fattuali ma anche perché, continuamente proponendola, sul piano politico si rischiano di innescare delle percezioni inadeguate e delle risposte distorte, le quali, oltre a alterare la realtà, potrebbero portare alle cosiddette dinamiche “auto-avveranti”, ossia concretizzare quegli scenari che in realtà sarebbero, di per sé, ben lungi dall’esistere. Proponendosi come uno strumento di semplificazione della realtà, la “nuova Guerra Fredda”, al contrario, impedisce di comprendere la portata e le peculiarità dell’attuale crisi, ostacolandone dunque una rapida ed efficace risoluzione. È quindi opportuno spiegare i tratti fondamentali che differenziano l’attuale contesto da quello dei primi cinquant’anni del secondo dopoguerra, individuando per quali ragioni e sotto quali aspetti l’odierno richiamo alla Guerra Fredda sia errato e facendo luce sulle reali o probabili dinamiche in atto. Per fare ciò, si farà capo alle maggiori dimensioni cardine delle relazioni internazionali, individuando di volta in volta se e in quale misura l’attuale contesto internazionale differisca da quello proprio del periodo 1945-1991, traendone poi alcune considerazioni in merito alle posture di politica estera degli attori considerati.

Il primo criterio da prendere in considerazione è quello della distribuzione del potere a livello internazionale. Il potere – da intendersi sia come possesso di capacità materiali, perlopiù militari, sia come capacità di influenzare gli altri – è la maggiore determinante dei rapporti fra Stati, in grado di infondere un certo ordine nelle loro relazioni. Infatti, per quanto possa essere ritenuto discutibile, la vita internazionale si fonda primariamente su disuguaglianze. Ebbene, in questo campo è riscontrabile la maggiore differenza rispetto al periodo della Guerra Fredda, il che già permette di chiarire macroscopicamente perché la suddetta analogia storica sia errata.

Innanzitutto, si può notare come allora, diversamente da oggi, ci si trovasse in un sistema bipolare, ossia caratterizzato da due grandi potenze, USA e URSS, le quali, in virtù dell’incolmabile differenziale di potere rispetto agli altri attori e alla collusione per il mantenimento di un tale stato di cose, detenevano ciascuna il controllo di una porzione del globo. Due potenze in quanto tali all’apice della gerarchia internazionale, capaci di dettare le regole del gioco quantomeno all’interno della propria area di influenza e che si precludevano reciprocamente – sventolando lo spauracchio dell’olocausto nucleare – intromissioni nel blocco altrui. Con il crollo del Muro di Berlino e, poco dopo, con la fine, appunto, della Guerra Fredda, il sistema ha virato verso un assetto unipolare al cui vertice si posizionavano, ben saldamente, i vincitori di quello scontro: gli Stati Uniti. Facendo leva sulla propria preponderanza in ogni campo delle relazioni internazionali rispetto agli altri Stati, Washington ha operato un rimodellamento dell’ordine post-bellico in modo originale e, chiaramente, favorevole alla propria stessa egemonia. Invero, oggi la leadership globale statunitense appare a serio rischio, destabilizzata da una serie di spinte eversive che muovono sempre più il sistema verso una conformazione multipolare e che impediscono alla politica estera di Washington di essere efficace ed efficiente, ma, proprio per questo, risulterebbe scorretto affermare che ci si trovi in un contesto come quello bipolare il quale presenti l’indiscutibile duopolio del potere da parte di due soli Stati. Quali sono, dunque, i tratti caratteristici odierni delle due grandi potenze della Guerra Fredda?

In seguito alla sconfitta e all’implosione dell’Unione Sovietica, la Federazione Russa ha per certi versi colmato il vuoto che era andato creandosi, assumendo, in “accordo” con le altre ex Repubbliche sovietiche, i ruoli che spettavano all’URSS in seno ad alcuni consessi internazionali – primo fra tutti l’ONU. Al di là del ruolo formale in specifici apparati istituzionali, tuttavia, l’odierna Russia nulla ha a che spartire con il proprio predecessore. Infatti, dal punto di vista del potere, attualmente la Russia è una potenza in netto declino: economicamente, vedendo un pesante rallentamento della propria crescita ormai da anni e basando il proprio sostentamento sui soli asset energetici; demograficamente, non essendo al centro del riallocamento della popolazione mondiale ma, al contrario, subendo quegli stessi processi di invecchiamento e di scarsa proliferazione propri dell’Europa occidentale; militarmente, al di là dei proclami e dei timidi tentativi di ammodernamento, essendo le mancanze in campo convenzionale solo parzialmente riequilibrate dall’arsenale nucleare e avendo visto disgregarsi quella rete di sicurezza costruita intorno a sé in epoca sovietica.

Gli Stati Uniti, egemoni in declino, pur detenendo un differenziale di potere in termini militari ancora sproporzionato rispetto a quello degli altri attori, riescono sempre mene a tradurlo in influenza ed effettiva capacità di incidere sulle relazioni internazionali. A questo contribuiscono in una certa misura sia una sempre maggiore erosione del primato economico di Washington da parte di attori fino agli anni Novanta insospettabili – tra cui Cina e India – sia una generale perdita di appeal della leadership statunitense, favorita, peraltro, dalla scomposizione culturale dell’attuale sistema. D’altro canto, in un sistema così dinamico da non permettere una rapida e chiara identificazione delle sfide fondamentali e in cui gli attori – statuali e non – sono sempre di più e sono sempre più attivi nel reclamare i diritti della propria sovranità, poco è lo spazio di gioco entro il quale dare frutto alla capacità di imposizione – coercitiva o persuasiva – necessaria per mantenere saldamente il potere in seno a un unico vertice. Specchio del declino statunitense e, in realtà, di un’amministrazione del dopo-Guerra Fredda per alcuni aspetti controversa, è la progressiva perdita di centralità strategica del dispositivo militare incarnante l’asse euro-atlantico, la NATO. Essendo una coalizione di guerra, ed avendo ormai raggiunto il proprio obiettivo – resistere alla Guerra Fredda e all’Unione Sovietica –, negli anni Novanta si sostenne da più parti, e negli Stati Uniti in particolare, il bisogno di scioglierla, onde evitare di riproporre le fallimentari dinamiche presentatesi già nel 1815, 1919 e 1945; all’opposto, si optò tuttavia per il suo mantenimento. I risultati non hanno però tardato a manifestarsi: in continuità con quanto argomentato dagli oppositori della NATO, essa non è riuscita a effettuare un rilancio della propria struttura, ormai priva di un obiettivo e di un nemico che potessero convogliare le paure e le decisioni dei membri verso un’azione concertata e unitaria. Soffrendo ormai da anni una profonda crisi di aspettative, durante gli ultimi conflitti è stata relegata a un ruolo marginale.

Il secondo criterio è quello spaziale e risente profondamente delle precedenti osservazioni. In merito si possono distinguere due cambiamenti, l’uno facente capo allo spazio come posta in gioco, l’altro al fenomeno della globalizzazione.

Durante il periodo della Guerra Fredda, le due grandi potenze dell’epoca spartirono il globo in due sfere di influenza semi-globali – i cosiddetti blocchi – i rapporti tra le quali erano regolati da tre principi: di esclusione, in base al quale entro la propria sfera non era tollerata alcuna intrusione esterna; di rappresentanza, col quale si giustificava il diritto di ciascuna grande potenza di controllare e condurre la politica estera degli afferenti a quel blocco; di intervento, arrogandosi il diritto, più in generale, di ingerire nelle politiche di ed entro quella sfera di influenza. Simile scenario rifletteva quindi una cognizione della norma di non-ingerenza valida tra i blocchi ma non all’interno degli stessi. La partita principale di questa tensione spaziale era giocata sul suolo europeo, ove ciascuna delle due sfere aveva riscontro tangibile negli opposti schieramenti militari della NATO e del Patto di Varsavia.

Oggi, tale stato di cose è alterato sotto molteplici aspetti. In prima istanza, il sistema internazionale non è più diviso in blocchi. Col dissolversi dell’Unione Sovietica e, con essa, del Patto di Varsavia, il blocco orientale si è frammentato in una serie di entità dalla statualità più o meno definita che hanno intrapreso, da allora fino ad oggi, un percorso autonomo di appartenenza alla comunità internazionale, ripristinando su di sé la sovranità. Certamente, la Russia post-1991 ha cercato di mantenere un certo grado di influenza su quegli Stati che precedentemente gravitavano entro la propria sfera – il cosiddetto «near abroad» –, talvolta compiendo anche atti di palese uso della forza o corruzione, ma questo non indica l’esistenza di un blocco più di quanto (non) lo faccia la tendenza dei Paesi dell’Europa occidentale a spalleggiare le iniziative statunitensi; se ciò non bastasse, un rapido riferimento ai tre principi cardine della geopolitica bipolare succitati, non riscontrabili nell’attuale contesto, non può che deporre in favore della tesi sin qui esposta, come d’altronde dimostra il fatto per cui negli ultimi decenni ex Repubbliche sovietiche si siano maggiormente avvicinate all’asse euro-atlantico.

Secondariamente, la partita principale non si gioca più in Europa. Dato un processo che trova la propria origine già negli anni Sessanta del secolo scorso, non vi è più un solo asse regionale di tensione; le varie aree regionali del mondo, peraltro non univocamente definibili, si sono caricate ognuna delle proprie dinamiche e peculiarità, necessitando ciascuna un certo grado di attenzione da parte degli attori internazionali. Quanto successo negli ultimi anni in Ucraina può trovare spiegazione – tra le tante valide – in criteri geopolitici che poco hanno a che spartire con le dinamiche della Guerra Fredda e che fanno capo alla lettura da parte della Federazione Russa di una minaccia nell’ampliamento dello schieramento militare della NATO verso i propri confini, lasciato intendere come obbligata conseguenza della possibile e rapida adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Si badi, tuttavia, che non è la paura di un qualsiasi schieramento militare alle proprie porte a spaventare la Russia; ciò che ne suscita l’aggressività è precisamente la prospettiva della NATO a ridosso dei propri confini occidentali, essendo essa ritenuta nel pensiero strategico di Mosca come il diretto prolungamento dell’influenza e del potere degli Stati Uniti. Non è quindi un timore “agorafobico” e isolazionista in termini assoluti che soggiace alla postura strategica russa ma, al contrario, lo specifico rifiuto di avere a che fare nel proprio vicinato con l’ingombrante e pur sempre pericolosa presenza militare dell’egemone statunitense. Tant’è vero che la Russia post-sovietica non ha mai smesso di supportare, al contrario, un rafforzamento della politica estera e di difesa comune dell’Unione Europa, ritenendo che questo, da un lato, avrebbe comportato un rafforzamento della coralità del proprio maggiore partner economico occidentale, a tutto vantaggio della stabilità anche strategica del continente, dall’altro, avrebbe anche dato ulteriore spinta alla perdita di preminenza della NATO, destinando finalmente alla scomparsa anche quell’ultimo (e unico) residuo di Guerra Fredda che può essere effettivamente individuato ancora oggi.

Quanto detto sinora va ad aggiungersi a un’ulteriore tendenza che pare essersi sviluppata in termini opposti rispetto a quanto si potrebbe pensare data la regionalizzazione del sistema. Facendo riferimento al fenomeno della globalizzazione, si può notare come, per quanto gli scambi economici, finanziari, monetari e culturali si siano intensificati in modo esponenziale, connettendo aree del globo pur geograficamente distanti, altrettanto non sia accaduto in campo strategico e diplomatico, entro il quale, anzi, si è assistito ad un’inversione di marcia rispetto al periodo della Guerra Fredda. A quel tempo la competizione tra le due superpotenze era globale nel senso che interessava, senza eccezioni, ogni area del sistema internazionale; non soltanto Stati Uniti e Unione Sovietica nutrivano l’ambizione di impedire all’altro di avere la capacità di influenzare l’assetto di ogni regione, spingendo invece per il proprio successo in senso opposto, ma qualsiasi tentativo del rivale di espandere la propria influenza comportava ripercussioni sul piano della partita principale – quella europea – e faceva riapparire l’eventualità dell’olocausto nucleare. Insomma, il sistema internazionale era altamente connesso – globalizzato, appunto – dal punto di vista strategico, tanto che ogni evento che coinvolgesse gli interessi, non necessariamente vitali, delle grandi potenze faceva sorgere lo spettro di uno scontro diretto e potenzialmente distruttivo tra le stesse, persino nell’eventualità in cui il focolaio della crisi fosse decentrato rispetto all’intoccabile congiunzione dei blocchi in seno all’Europa. In altre parole, eventi lontani nello spazio avevano ripercussioni globali. Oggi lo scenario è esattamente opposto: la proliferazione di attori internazionali di cui sopra e la regionalizzazione del sistema internazionale hanno frammentato le precedenti interconnessioni strategico-diplomatiche, aumentando l’incomunicabilità dei singoli eventi così come delle crisi politico-militari e riducendo il coinvolgimento – nonché l’interesse – che gli Stati nutrono per episodi geograficamente distanti, non percependoli come una minaccia diretta ai propri interessi strategici.

In conseguenza a tutto ciò, e unitamente a quanto già espresso in merito ai rapporti di potere, sono da considerarsi mutate anche le posture in politica estera dei due Paesi che stiamo considerando – Stati Uniti e Russia – entrambi non facendo più proprie le intenzioni globali che li avevano caratterizzati durante la Guerra Fredda.La Russiain primis non può aspirare a ripristinare la propria influenza sull’ex blocco sovietico, non possedendo più il potenziale necessario né in termini di risorse, né di potere coercitivo, né di appeal ideologico. In effetti, gli stessi decisori politici russi hanno riconosciuto – da tempo ormai – questo stato di cose; uno sguardo alle linee programmatiche per la sicurezza nazionale russa del 2002, 2008 e 2013 permette di leggere con chiarezza come le ambizioni di questo Paese si siano ridimensionate: l’obiettivo ideale che Mosca si pone è quello di acquisire uno status di potenza regionale, sicura entro i propri confini e dotata di saldi contatti con i Paesi limitrofi. Ma, al di là di ciò, l’esistenza di una linea di tensione tra Occidente e Russia proprio lungo un confine comune non comporta minimamente, di per sé, la risurrezione delle dinamiche della Guerra Fredda, caratterizzandosi al contrario come un elemento tipico della natura della convivenza internazionale – vero tanto più che si deriva verso un assetto multipolare.

Il cambiamento del contesto sistemico comporta anche un ridimensionamento del rischio di escalation nucleare – pur se non del rischio di conflitto armato in generale. Come peraltro è stato sottolineato da più analisti, la probabilità di utilizzo di testate tattiche da parte della Russia nell’area est europea è sostanzialmente nullo, questo sia per ragioni militari, data l’estrema vicinanza al proprio territorio nazionale, sia per ragioni economiche, dato che andrebbe a colpire uno dei ponti principali verso l’Unione Europea, sia per ragioni che potremmo definire di carattere sociale, essendo l’appartenenza alla comunità internazionale altamente considerata dalla Russia contemporanea, la quale dunque non la metterebbe a repentaglio più di quanto già non sia con un gesto di tale portata. Allo stesso modo, anche gli USA non potrebbero permettersi di affrontare i costi di un’offensiva militare nucleare – nemmeno direttamente su suolo russo – sia in termini materiali che in termini diplomatici, questi ultimi coincidenti con tutta probabilità con un distacco più o meno definito e unanime della compagine europea dall’asse atlantico. Il continuo rimbalzo da una parte all’altra di “innocenti” reminder delle rispettive capacità nucleari è dunque da valutare come un incosciente esercizio di retorica politica. Anche il recente annuncio da parte del Cremlino di voler fortificare il proprio arsenale nucleare strategico è da leggersi in quest’ottica, soprattutto considerando che la Russia ha intrapreso sin dal 1991 un’opera di rimodernamento militare il quale, trovando ampie difficoltà nel settore convenzionale, è stato spesso dirottato sul settore nucleare; trattasi dunque con tutta probabilità di un ampliamento dell’arsenale già da tempo programmato ma al quale si è deciso di dar voce sulla scia delle recenti contingenze. Ciononostante, seppur dal punto di vista oggettivo sia da discreditare l’imminenza di una minaccia nucleare – e quindi ancora una volta sia da accantonare il richiamo alle dinamiche della Guerra Fredda – dal punto di vista soggettivo, il richiamo alle proprie capacità in quel campo potrebbe portare con sé un problema concreto. Infatti, se nelle menti dei policy-maker si insinuasse l’abitudine di fare riferimento alle armi nucleari, se queste diventassero (o ritornassero) nel linguaggio politico un oggetto di uso comune, il passo sarebbe breve perché da lì si giunga all’utilizzo concreto delle stesse o al credere che effettivamente il nemico possa infine decidere di dispiegarle sul campo. Questo è un classico processo di distorsione delle percezioni che è tipico di un ambiente come quello internazionale il quale fa proprio un dilemma della sicurezza precludente certezze assolute rispetto alle intenzioni del nemico e, proprio per questo, i governi dovrebbero cercare di moderare le proprie prese di posizione in termini più credibili e meno – in prospettiva – rischiosi.

Infine, si può ricorrere ad un terzo criterio, facente capo alla dimensione ideologica e culturale. Pur alle volte tralasciato nelle analisi del sistema internazionale, questo aspetto permette di arricchire l’approccio sistemico di osservazioni altrimenti non coglibili, soprattutto, come in questo caso, quando si vadano a sottolineare similitudini e differenze tra gli attori. Ciò risulta un utile strumento particolarmente in relazione alla Guerra Fredda, nel cui quadro lo scontro fra le grandi potenze avveniva anche e principalmente sul piano ideologico.

È noto a tutti come la competizione bipolare fosse incentrata su una duplice proposta, l’una esclusiva rispetto all’altra, comportante la scelta tra capitalismo e comunismo; due approcci completamente opposti non solo nello sguardo all’economia ma dotati pure di risvolti peculiari sul piano della gestione del potere, dell’organizzazione della società e dei modelli di vita, ma entrambi autoproclamati difensori dei veri principi democratici. Incarnati rispettivamente nell’Occidente e nel blocco sovietico, capitalismo e comunismo riproponevano la propria sfida a livello globale, trascendendo le linee di confine e le barriere fisiche per contaminare il pensiero politico degli individui nel tentativo di avere la meglio sul proprio avversario e di ricondurre sotto la propria bandiera il sistema tutto. Possiamo quindi affermare che lo scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica fosse non solo globale, nei termini già indicati, ma totale; a livello ideologico, infatti, la competizione bipolare assumeva tratti puramente universalistici: ciascuna delle parti percepiva di avere un ruolo messianico, indicando il proprio obiettivo nell’esportazione della propria concezione del mondo laddove essa non fosse ancora giunta, in una sorta di liberazione di quei popoli dall’errore in cui precedentemente vivevano. Ovviamente, tutto ciò era strumentale innanzitutto alla più agevole penetrazione politica delle diverse regioni del sistema internazionale, ma ridurre a questo soltanto il suo scopo sarebbe riduttivo, caratterizzandosi invece di per sé come un elemento di conflitto. Ebbene, vi è traccia oggi, lungo le linee di competizione tra Russia e Occidente, di una simile contrapposizione, radicale ed eccettuativa, tra modelli ideologici? La risposta sembra dover essere negativa. A livello generale negli ultimi venti anni, nonostante i numerosi tentativi di segno opposto, si è assistito a un reflusso dell’efficacia e dell’applicabilità di linguaggi globali che fossero capaci di trascendere i confini e le diversità per raccogliere consenso intorno a sé. Guardando in particolare agli Stati Uniti – gli unici attori del post-Guerra Fredda con la possibilità e le capacità di intraprendere una tale opera – si può notare come entrambi i nuovi complessi ideologici da essi fondati, quello della transizione al mercato e alla democrazia e quello della “war on terror”, abbiano incontrato degli ostacoli nella loro piena realizzazione, il primo infrangendosi contro l’inapplicabilità pedissequa dei modelli occidentali al di fuori dell’Occidente stesso, il secondo non riuscendo a definire né un nemico chiaro né un proprio “end-state” e apparendo sempre più come null’altro che un esercizio di retorica politica. Oltre alle incongruenze interne all’impianto della “vetrina dell’eccezionalismo” statunitense, il maggiore elemento responsabile per una simile inefficacia è da ricondursi alla eterogeneità ideologica del sistema internazionale. Come in una sorta di effetto elastico, dopo la rigida (semi-)uniformità culturale della Guerra Fredda, ceduti i vincoli geopolitici che spingevano alla conformazione all’uno o all’altro modello e seguendo le fratture regionali di scomposizione del sistema internazionale, si è assistito a una proliferazione di professioni di unicità le quali, ognuna predicando l’esclusività della propria identità di afferenza, si sono dimostrate tanto impermeabili quanto conflittuali rispetto sia alle altre identità sia rispetto ai tentativi di ricostituire un’omogeneità ideologica a livello sistemico. Se ciò non gioca a vantaggio della stabilità della comunità internazionale, non depone nemmeno favorevolmente rispetto alla validità di un’analogia storica quale quella qui in discussione.

A livello superficiale, l’unico scontro culturale che si può individuare nel presente contesto è quello tra le due diverse concezioni di Europa proposte l’una dalla Russia di Putin e l’altra dall’Unione Europea. Tali discrepanze in termini di considerazione dei diritti umani, delle responsabilità della politica, del rapporto con la religione e il mondo al di fuori dei propri confini sono tuttavia ben lungi dal costituirsi come un terreno fertile per un nuovo scontro globale, caratterizzandosi piuttosto come un “values gap” tra l’approccio liberale dell’UE e quello conservatore della Russia.

Inoltre, il rischio della ricostruzione di uno scontro ideologico globale è per ora reso una remota eventualità pure dalla natura della retorica a cui fa capo lo stesso Cremlino per giustificare le proprie azioni. Internamente scossa da una continua battaglia sulla gestione del proprio passato, la Russia contemporanea trova nel nazionalismo una fonte di condensazione del consenso che aiuti a impedire la propria stessa divisione lungo le linee di frattura identitarie che ne accompagnano l’esistenza in quanto spazio multietnico. Questo nazionalismo presenta, da un lato, caratteri russofili definiti in senso stretto, enfatizzando dunque la figura dei nativi, di coloro i quali vivono entro i presenti confini della Federazione; dall’altro lato, fa capo al complesso culturale del “pan-slavismo”, il quale estende la definizione di “russo” attraverso le terre slavo-ortodosse precedentemente parte dell’Unione Sovietica. Per quanto quest’ultimo aspetto possa essere di per sé un motivo di tensione con quei Paesi emancipatisi dal passato sovietico, sicuramente l’odierna ricetta del nazionalismo russo non può aspirare a essere un fattore di liberazione globale da contrapporsi a qualsiasi altro (quale altro?) come modello moralmente superiore, quantomeno poiché esso fa riferimento a tratti di appartenenza etnica i quali non sono trasversali alla popolazione globale. Per quanto alcune sfaccettature dei discorsi politici moscoviti presentino l’aspirazione di poter essere condivisi a livello internazionale e quindi su quel piano raccogliere consensi, il loro principale indirizzo è la popolazione russa, col fine di giustificare presso di essa le azioni che il governo intende perseguire e mantenere dunque la coesione interna.

Forti delle osservazioni di cui fino a questo punto, siamo ora in grado di trarre alcune conclusioni finali in merito all’(in)adeguatezza di un’analogia storica come quella della Guerra Fredda per descrivere l’attuale contesto di ostilità tra Occidente e Russia.

In primo luogo, essa risulta inappropriata poiché richiama alla serie di possibilità aperte ed esistenti nella sola misura in cui vi sia una struttura di potere a livello internazionale che si presenti come bipolare. Gli Stati Uniti e la Russia di oggi sono entrambi potenze in declino sotto una molteplicità di aspetti e alle presenti condizioni non possono in alcuna maniera ricostituire le dinamiche tipiche dei cinquant’anni successivi alla seconda guerra mondiale, ossia una dialettica scontro senza quartiere e di collusione per il potere. In secondo luogo, anche la conformazione geopolitica e geostrategica del sistema internazionale stesso non favorisce il riproporsi di uno scenario di conflitto globale. Profondamente regionalizzato, il contesto odierno non lascia spazi per la globalizzazione dei conflitti per la semplice ragione per cui essi non sono più in grado di colpire gli interessi vitali degli Stati a prescindere dalla loro localizzazione geografica. Inoltre, lo stesso deficit di capacità di Stati Uniti e Russia non permette in alcun modo di ampliare questo conflitto – almeno nel medio periodo – su piani altri rispetto a quello in cui esso ha preso origine. Infine, e conseguentemente a quanto appena detto, nemmeno la presente dimensione ideologica delle tensioni con Mosca è assimilabile a quella della Guerra Fredda. I linguaggi politici e i messaggi culturali di cui si fanno fregio gli attori coinvolti non hanno la possibilità alcuna di proporsi come ricette di compartecipazione transnazionale, considerati sia l’ambiente frammentato in cui esse prendono luogo, sia la debole o specifica natura contenutistica a cui essi fanno riferimento.

Mancando il contesto attuale dei tratti fondamentali per cui si possa parlare di Guerra Fredda non si può che concludere che l’utilizzo di una simile analogia storica per descrivere la presente contingenza non renda giustizia ad una chiara esposizione delle dinamiche in atto, definendosi dunque come inadeguata e fuorviante per una piena comprensione e risoluzione del conflitto in questione. Alla base di tale richiamo a eventi storici conosciuti per descrivere il presente è individuabile innanzitutto la radicata tendenza del linguaggio politico recente a cercare semplificazioni cognitive che permettano di concentrare i messaggi e renderli – almeno superficialmente – più diretti. Così facendo, tuttavia, si causa una distorsione percettiva di quella che è la realtà, di quali siano le ragioni delle azioni compiute e di quali possano essere le possibili soluzioni al conflitto; al contrario, non cogliendo in modo chiaro la natura dei processi in atto ma anzi nascondendola dietro a una retorica compendiaria si rischia di rimandarne qualsiasi ricomposizione delle controversie. Oltre a tutto questo, il ricorso all’analogia storica della Guerra Fredda rispecchia anche la tendenza degli Stati a prepararsi per le guerre passate invece che per quelle presenti e future: costringendo gli eventi contemporanei entro una cornice conosciuta e dei cui esiti già si ha dimestichezza, gli establishment politici sembrano cercare di diradare la “nebbia” della guerra – e più in generale, l’indeterminatezza della vita internazionale – così sperando in un quadro di maggiore certezza per le proprie decisioni; proprio per questo, tuttavia, il risultato non potrà che presentarsi come deludente.

* Nicolò Fasola è laureando in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee (Università degli Studi di Milano) e Segretario MSOI Milano

Per approfondire:

Alessandro Colombo  e Paolo Magri (a cura di), In mezzo al guado. Scenari globali e l’Italia, Rapporto ISPI, 2015.

Alessandro Colombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.

Concept of the Foreign Policy of the Russian Federation, Ministry of Foreign Affairs of Russia, February 12, 2013.

Golts, Alexander, “Kremlin Images of the World: Old-Age Hang-Ups and Juvenile Complexes”, in Crutcher, Michael H. (ed.), Russian National Security: Perceptions, Policies, and Prospects, Center for Strategic Leadership, U.S. Army War College, 2001.

Ivonen, Jyriki, “Russian Policy vis-à-vis Western and Northern Europe”, in Crutcher, Michael H. (ed.), Russian National Security: Perceptions, Policies, and Prospects, Center for Strategic Leadership, U.S. Army War College, 2001.

William R. Keylor, Un mondo di nazioni. L’ordine internazionale dopo il 1945, Guerini Scientifica, 2007.

Andrew Monagham, A “New Cold War”? Abusing History, Misunderstanding Russia, Research Paper, Chatham House, 2015.

National Security Strategy of the Russian Federation to 2020, Ministry of Foreign Affairs of Russia, May 12, 2009.

Parkhalina, Tatiana G., “Russia and Western Europe: Problems and Perspectives”, in Crutcher, Michael H. (ed.), Russian National Security: Perceptions, Policies, and Prospects, Center for Strategic Leadership, U.S. Army War College, 2001.

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