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Una svista come lo è aggiungere una “e” di troppo. Nacque nell'estate del 1926, ma il suo cuore fu a lungo tormentato dal rigore di un inverno perenne. Una madre fragile e incostante, degli zii soffocati dal fanatismo religioso, una felicità fugace sotto il tetto di un'amica di famiglia e poi gli orfanotrofi, gli orfanotrofi, il sesso scoperto ancora da bambina e un circolo di violenza e privazioni – alimentato da famiglie lampo, da papà dalle mani troppo lunghe e da carcerieri rimasti ancora senza volto. Improvvisamente, l'indipendenza. Un nuovo nome, un nuovo colore di capelli, un nuovo modo di atteggiarsi e sorridere. Studiato per piacere, sfondare, farsi amare e riempire un vuoto dalle proporzioni di un'infanzia sottratta. I suoi occhi troppo azzurri mi parlano di un destino d'attrice scritto anche all'anagrafe, degli uomini sbagliati, dell'amore più intenso che si è rivelato soltanto bieco possesso, dei soldi che, aveva creduto, potessero renderla felice. Però continua a non dire niente, mentre io porto finalmente a termine la prima di una serie di noiose domande che, immagino, avrà sentito già mille volte. Osservo il collo candido che sbuca da un dolcevita nero, il carnoso neo sul labbro destro, le sue forme morbide che sovvertono completamente le silhouette filiformi che falcano le passerelle odierne e, soprattutto, osservo quegli occhi tremanti che cercano una via d'uscita. Che mi chiedono già basta. Mi appare nella sua vera essenza, una bambola di ceramica con troppo trucco che ha imparato a vivere delle attenzioni altrui: indifesa, immensamente piccola nel suo metro e sessantasei, la bimba dal pianoforte scordato - che era un tempo e non è mai stata - alla mercé di un orco cattivo e dispettoso. Così come si era calato, il sipario torna ad alzarsi. Mi si avvicina di nuovo e di nuovo vacillo sulla mia panca. Mi sposta il ciuffo dagli occhi e, mordendosi la lingua come una bimba alle prese con una marachella, mi sfila gli occhiali da vista. I suoi occhi rimpiccioliscono dietro i vetri spessi dei miei Ray Ban e li storce con uno sbuffo irriverente. Tende le mani nel vuoto, come se volesse acchiapparmi. Eccomi, le dico nella mia mente. Prendimi. «Uh, sembri così piccolo», sghignazza, e, indicando il massiccio barista: «Pensa che lui lo vedo come uno dei Puffi! Un grosso Puffo arrabbiato, e rosso come un peperone!». Hulk, lì, risponde con un grugnito e Marilyn controbatte con un'altra risata argentina, che scema nel pugno che si porta alla bocca, simulando un mal riuscito attacco di tosse. Lei è cosi. Pazza e meravigliosa. Un miracolo che, la notte, si oscura dietro un banco di malinconia. «Penso sia l'ora di andare via. Sei un bel ragazzino, ma non credo che le storie che ti porti dentro e i libri che ti porti appresso possano fare qualcosa contro le nocche di quel bruto. Voglio portarti nel mio posto segreto». Io sto scappando insieme a Marilyn Monroe. I flash dei paparazzi in strada, la sua mano attorno al mio braccio, lo scalpiccio di piedi in fuga, un'oasi di pace in piena New York. Sfrecciamo dinanzi alle vetrine luccicanti di Tiffany e potrei giurare di aver scorto un tubino nero, una collana di perle e un paio di Ray Ban scuri, certamente più famosi dei miei, riflessi tra gli ori e i diamanti. Audrey e la sua strana e celebre colazione: la più dolce. Imboccato un vicolo sperduto, ci troviamo davanti a un negozietto dal parquet lucido e dall'odore di cera e sandalo ad aleggiare, simili a note ancora inespresse, tra le scale a chiocciola e i tasti in bianco in nero. Un trilione di tasti per un mare in cui, a galleggiare, ci sono pianoforti di ogni foggia e colore. La presa di Marilyn si fa più intensa e la sua voce lascia trapelare un brivido di emozione: «Questo è il mio rifugio. Nemmeno i colpi di cannone potrebbero affondarmi su questa nave che - al posto delle vele, della poppa e di quello strano sterzo che gira.. mmm.. come si chiama? - ha 88, piccole scialuppe di salvataggio in cui barricarmi». Volteggia su sé stessa in un ciclone di balze perfettamente stirate e sorride riconoscente alla coppia di anziani che la osserva da dietro la cassa. Sono loro i proprietari di questo castello in cui la ragazza che ha tutto può sentirsi una vera principessa. Le sue dita scivolano sui tasti di un piano a coda, dando vita a una trascinante scala musicale che rompe il silenzio. «88», mormora,«il numero perfetto. L'infinito che guarda in faccia l'infinito.. Non ho mai avuto un piano tutto mio. Non ho mai avuto nulla, in verità, che fosse tutto mio. Nella cittadina in cui sono cresciuta, mi incantavo a contemplarli dalle finestre affacciate sul negozio di musica, poi, una delle mie tante mamme, l'ha comprato di seconda mano da un'ex stella del cinema muto. Era scheggiato, rotto, scordato, ma aveva ancora tante cose belle da dire. Distrutto e annientato come questo cuore mio, ma con ancora tante melodie da cantare». E' allora che noto le occhiaie coperte da un velo di fondotinta, le rughe scavate dal dolore, un ghigno sofferente mascherato da sorriso. La sua vita la conoscono tutti, ma ora mi darà un frammento inedito di sé stessa. La vecchia e la nuova lei si incontrano a bordo di quella zattera di salvataggio dal suono incantevole. Canta per me, canta perché certe parole non possono rimanere non dette.
“Pensavano di potermi ferirmi, di riuscire a buttarmi giù.Ho sofferto ogni offesa, ma ora mi elevo al di sopra di tutto.Sì, il prezzo che ho pagato era tutto ciò che avevo,ma se qualcosa di buono può venire dal male, il passato può riposare in pace.Quindi, se vedete qualcuno che soffre e ha bisogno di una mano,non dimenticatemi, o se sentite una melodia triste di una mezza coda,bhe, non dimenticatemi. Quando cantate “tanti auguri” a qualcuno che amate,o vedete dei gioielli che vorreste fossero gratis, lasciate che brilli come se fossi la vostra stella. Ma dimenticate ogni uomo che ho incontrato,perché hanno vissuto solo per controllarmi. Per un bacio hanno pagato mille dollari,ma hanno messo all'asta la mia anima per cinquanta centesimi! Ma non hanno comprato me quando hanno comprato il mio nome ed ecco perché vi prego di non dimenticarmi. Ci sono persone che per brillarenon possono farlo da sole, quindi proteggetele e abbiatene una cura speciale,abbiatene cura.. Quando guardate il cielo con la persona che amate,e una luce brilla lontana, spero che vediate il mio viso e che diciate una preghiera,e, vi prego, fatemi diventare quella stella”.
Una sua lacrima cade al suolo e io svanisco in essa. Una lacrima per coloro che sono vittime dei demoni della giovinezza e della fama. Una lacrima per chi, a proprie spese, ha imparato che i soldi non possono comprare l'affetto di una famiglia, l'amore e il calore di una persona che ti stringe a sé. Una lacrima per scoprirsi sveglio nella propria stanza, davanti allo schermo di un pc che, fino a poco prima, era un lenzuolo bianco. Mia mamma mi passa accanto e mi scuote i capelli, via le cuffie dell'ipod dalle orecchie. «Dove sei stato di bello, Michè?», dice prendendomi in giro. Sto al gioco, e rispondo: «Da un'amica.. Da un'amica..».Forse è una bugia, ma sul viso sento l'ombra di un suo bacio. Dentro, l'eco di un vuoto che - contro i luoghi comuni e la negligenza dei bigotti col dito puntato - ho imparato a capire. Nota:Quest'idea mi è venuta per caso, quando mi sono accordo che mancavano poche settimana al mio turno nello scrivere un post per questa bella rubrica. Ahimè, non mi sono affidato alle lettura di biografie o romanzi – amici e parenti, tuttavia, mi parlano benissimo di Vivere e morire d'amore, di Alfonso Signori e La mia settimana con Marilyn, di Colin Clark - ma mi sono lasciato ispirare dallo splendido film con Michelle Williams e Eddie Redmayne (la mia recensione qui) e dalla serie musicale Smash, aun cui brano (Don't Forget me) è ispirata interamente la canzone intonata dalla mia “amica per un giorno”. Il titolo di quest'avventura riprende, invece, quello del romanzoCercando Alaska, di John Green. Un'altra incognita bionda alle prese con gli spettri dei suoi giovani anni. Al prossimo mese, Mr. Ink.
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