Avevo la biblioteca a mia completa disposizione. Libero accesso agli scaffali, agli archivi. Nonostante il periodo scolastico, la biblioteca non era affatto frequentata. Quanto più scoprivo gli storici tesori ch’essa custodiva tanto più mi stupivo di questo disinteresse. Il bibliotecario, Alfredo Carnacina, così disse di chiamarsi, si era rivelata una persona davvero affabile. Era un uomo vicino ai quaranta, dai capelli biondo-cenere. Aveva le spalle leggermente curvate, ma il fisico slanciato. Si vedeva che aveva un desiderio grande di comunicare con qualcuno in grado di apprezzare la sua funzione e il suo lavoro. La mia presenza, mi diceva, attestava l’importanza di quei luoghi. Mi spiegava che la biblioteca, dopo la donazione della famiglia dei principi di Rocciacavata, era stata completamente rifatta. L’amministrazione comunale per non vedersi sminuita nel prestigio si era ufficialmente impegnata a costruire un luogo degno di accogliere i rari volumi e i preziosi documenti. Era stata l’unica condizione posta dagli eredi del principe. Il lavoro, in effetti, mi sembrava di squisita fattura. Senza nulla sacrificare alla comodità del lettore, l’edificio al suo interno si presentava sobrio e funzionale. Infatti, avevo notato che fosse l’unica costruzione del paese che non avesse nulla di eccentrico. La sala interna era piuttosto spaziosa e ben disposta per la lettura. Sulle pareti laterali si addossavano le scaffalature in legno dei libri. Sopra le scaffalature, divise da una vetrata, era sospeso un ballatoio con delle solide colonne, al quale si accedeva attraverso metalliche rampe di scale che cadevano in due punti opposti ma centrali rispetto alla sala. I tavoli in noce, disposti su due fila, di giorno erano sempre ben illuminati dalla luce proveniente dalla vetrate superiore collocate lungo il ballatoio e da alcuni lucernari. Lo sguardo del lettore andava verso la direzione dell’entrata e veniva dominato dai ritratti del principe Saverio Antonio e di Gironimo.
Il bibliotecario si lamentava del fatto che dovesse gestirla con sistemi rudimentali: il comune non gli aveva messo a disposizione neanche un computer. Per gli amministratori locali la biblioteca e il bibliotecario rappresentavano due voci del capitolo di bilancio di cui volentieri avrebbero fatto a meno. Perciò egli si limitava ad inventariare i libri per autore secondo le lettere dell’alfabeto su delle grosse rubriche. Erano poi queste rubriche che il lettore doveva consultare per sapere se un libro era o non era presente. Alle mie spalle si disponeva un’altra parete coperta da poche scaffalature con al centro un àndito da dove si accedeva alla saletta dei documenti. Era mia abitudine restare lì per delle ore e trasportare in sala di tanto in tanto grossi pacchi di documenti. Senza intralci burocratici, lavorava spedito. I documenti da consultare erano racchiusi in grossi faldoni, senza nessun criterio, alla rinfusa. Erano anni, mi diceva il bibliotecario, che qualcuno non metteva mano a quelle carte. In quei faldoni c’era di tutto. I diritti feudali che i vari sovrani nel tempo avevano concessi alla famiglia Rocciacavata: Jus della Dogana, Jus Scandagi, Jus fidae et diffidae, Jus tornatarum, Jus immunditiarum, Jus venationis, Jus portolaniae, De Serviilis Vassallorum, Jus stallagi seu Tabernae, Jus Palagi, Jus prohibendi. Almeno quelli che mi ricordo a memoria. I più strani, arbitrari, vessatori tributi che si pagavano localmente ai signori feudali. E c’era una folta corrispondenza; da decifrare, in parte. Numerosi corpi di entrate feudali e varie voci giurisdizionali. C’erano delle Platee autentiche, tra cui la famosa Reintegra di Sebastiano Della Valle.
Il ramo dei principi di Rocciacavata, già dotato di numerosi feudi, era stato promosso a maggior rango quando il principe Luca aveva acquistato per ventimila ducati da Ferrante I, tutte le terre di Seconza. La consistenza dello stato di questi feudatari si era fatta imponente e i loro domini si estendevano largamente anche fuori della regione. Nel 1490, lo stesso principe aveva acquistato dal re, per diciottomila ducati, una partecipazione alla gabella della seta, che gli consentiva di esigere cinque grana per ogni libbra di seta prodotta nella regione e comprendeva l’esercizio di complessi compiti giurisdizionali e di polizia. All’inizio del Cinquecento, i principi di Rocciacavata erano, sotto ogni riguardo, tra le prime famiglie del Regno per l’ampiezza e la qualità dei domini. L’importanza di questa famiglia mi sembrava in palese contrasto con l’indifferenza che gli abitanti di Rocciacavata dimostravano nei suoi confronti.
Nei primi giorni trascorsi in quel luogo, avevo notato che solo una donna frequentava abitualmente la biblioteca. Si trattava di una donna sui trent’anni, piccola, dai capelli neri e sempre ben curata. Mi aveva incuriosito la regolarità dei suoi gesti. Si presentava in sala appena un’ora dopo il mio arrivo. Aveva un portamento elegante. Entrava e, accennato un saluto al bibliotecario, attraversava la sala senza volgere lo sguardo in nessuna direzione, andando a sedersi ad un tavolo in fondo, un po’ distante dal posto dove io abitualmente studiavo. Mentre scorreva la rubrica dei libri, restava assorta in quella meditazione per alcuni minuti, come in attesa di qualcosa. Poi con calma si alzava e andava verso un punto preciso della sala. Prendeva un libro e, senza esitare, andava dal bibliotecario per il prestito. Naturalmente, Alfredo, sin dal primo giorno, si affrettò a darmi informazioni sul suo conto. «Quella», cominciò a dirmi, «è la baronessa Clara, una donna di classe, figlia unica dell’avvocato Carlo Della Miranda. Il titolo di barone l’ebbe acquistato a fine Ottocento suo nonno per vanità, perché oramai la nobiltà non contava più niente. La baronessa ha studiato lettere a Napoli». Avevo chiesto che lavoro svolgesse, ed egli s’affrettò a dire, mettendomi una mano sul braccio: «Quella non ha certo bisogno di lavorare come noi altri poveri cristiani. Essa è ricca, assai ricca, e si nutre soltanto di libri. È una vera femmina di scienza; ha una cultura eccezionale; si dice che passi tutto il suo tempo a studiare sui libri». «Una specie di Giacomo Leopardi in gonnella!». Mi venne d’osservare spiritosamente. «Avete detto bene, professore, però il conte studiava perché era brutto e deforme e non se lo pigliava nessuno. Lei invece è una bella donna, ed è veramente spiacevole che consumi la sua bellezza sulle carte!». Non gli feci notare che lo studio non è una condanna riservata soltanto ai brutti. Dunque, la baronessa era una donna molto ricca e bella. Agio e ricchezza le avevano dato la possibilità di vivere soltanto di studio. La mia mente cominciava a favoleggiare su questa donna così singolare. Perché era chiaro che mi trovavo di fronte ad una personalità inconsueta, una donna dal forte temperamento.
Forse la baronessa perseguiva un ideale di studio ormai fuori dal tempo. Chissà, mi domandavo, se nella baronessa non sopravvivesse un retaggio antico di quel modello di vita aristocratica che filosofi di quelle terre definivano Teoreticòs Bios: dedizione completa alla vita contemplativa, svolta senza alcun fine utilitaristico, pura speculazione o attività del pensiero, la cui sola virtù è la sapienza o la saggezza.
Una mattina la baronessa entrò e con mia grande sorpresa si diresse verso di me. Dopo una breve presentazione e senza tanti preamboli, mi diceva che era un grande onore conoscere personalmente l’autore de’ Il secolo di Leone X e di Verso un nuovo Medioevo, ma soprattutto di conoscere l’autore de L’uso della spiegazione nella ricerca storiografica. A sentirmi citato questa operetta, quasi dimenticata, ebbi un moto di sussulto. Era un lavoro scritto all’epoca della mia abilitazione di laurea che non ebbe grande fortuna. Circolò pochissimo ed ebbe una tiratura piuttosto limitata. Me n’ero a tal punto dimenticato che non lo elencavo più neanche in quelle schede che si scrivono per il proprio editore. Mentre l’ascoltavo con i gomiti poggiati sul tavolo e con le mani intrecciate, la baronessa tutta animata e seduta di fronte mi stava raccontando come venne a conoscenza di quel lavoro. Era l’ultimo anno dei suoi studi universitari a Napoli. Era certa della data perché lei ha l’abitudine di scriverla su tutti i libri che acquista, come tenne a sottolineare. Un giorno, com’era suo costume, “pilucchiando” (usò proprio questo termine) tra i libri di una bancarella le capitò in mano quel libricino dalla copertina azzurrina. Il titolo era molto attraente e lo comprò a metà prezzo. La cosa sorprendente, mi disse, è che una settimana prima del mio arrivo, mettendo in ordine la sua libreria, le capitò di nuovo tra le mani ed ebbe la curiosità di rileggerlo. Perciò quando Alfredo, il bibliotecario, le disse il nome dello studioso che frequentava la biblioteca non le sembrò vero che fosse lo stesso autore di quel libricino. «Si immagini», mi diceva, «la mia meraviglia quando seppi chi era lei! Quel saggio ha cambiato il mio modo di guardare la storia!». Le dissi ch’ero molto lusingato delle sue parole, ma aggiunsi che lo ritenevo un lavoro troppo schematico e un po’ rigido nelle conclusioni, frutto di una mente giovanile. Lei concordò in parte con il mio giudizio, ma mi domandò se in seguito avevo intenzione di riprenderlo e di approfondirlo. Io risposi che ormai era da un pezzo che mi dedicavo soltanto alla pratica storiografica e che avevo smesso di interrogarmi sulla teoria. La baronessa si disse persuasa che la pratica non era sufficiente e ch’era un peccato ch’io la pensassi in quel modo. Cambiando argomento, mi domandò come procedeva la mia ricerca. Io colsi l’occasione per lamentarmi dello stato in cui avevo trovato i documenti e dicevo che in effetti non si potevano tenere documenti così preziosi in quel modo. Non erano classificati neanche secondo un elementare ordine cronologico. Ovviamente non volevo incolpare il bibliotecario, poiché per quel lavoro occorreva un archivista esperto. All’inizio credevo che prima della fine dell’estate la mia permanenza poteva dirsi conclusa, ma il disordine nel quale avevo trovato i documenti faceva aumentare di giorno in giorno il mio scetticismo. Tuttavia, aggiunsi, il particolare che mi ha colpito è che nella Monografia storica di Rocciacavata di Vincenzo Monastero e ne Le origini e prime vicende storiche di Rocciacavata di Padre Bolso non avevo trovato nessun capitolo, come mi sarei aspettato, dedicato ai regnanti di queste terre. Avevo trovato soltanto brevi accenni, quando si riportavano i vari passaggi feudali subiti nel corso dei secoli da questo comune. In fondo, conclusi, si tratta in entrambi i casi di opere dell’Ottocento, epoca in cui il ricordo dei principi di Rocciacavata doveva essere ancora fresco. Insomma, dicevo, rendendomi conto di quanto fosse stato importante questa famiglia per Rocciacavata, nel bene e nel male, mi sembrava strano che in paese questa storia non avesse trovato mai un cronista che ne narrasse le vicende. «A lei insomma stupisce questo secolare disinteresse per la storia dei principi di Rocciacavata!» Chiosò la Baronessa.
Avendo visto come hanno ridotto il Castello e gli altri monumenti del passato, io non mi stupivo soltanto di quel disinteresse particolare, che in sé non era affatto giustificabile, ma di quella sorta di disinteresse totale per la propria storia, come se i rocciacavatesi avessero voluto seppellire il loro passato. Almeno questa era l’impressione che ricavai in quei primi giorni di permanenza. Che poi ripensandoci non era neanche esatto dire che io ero stupito del loro disinteresse, ma semplicemente mi risultava inconsueto. Qualsiasi cittadina se avesse avuta una storia paragonabile a quella di Rocciacavata quantomeno l’avrebbe sfruttata a fini turistici. Invece, ciò sembrava del tutto estraneo al paese. Addirittura, raccontai alla baronessa, quando la segretaria dell’università si prese l’incarico di trovarmi un alloggio a Rocciacavata ebbe enormi difficoltà. Soltanto dopo ripetuti tentativi riuscì a trovarmi una sistemazione presso la vecchia Filomena. «Ci sono delle storie o delle leggende», disse la baronessa «che non troverà in nessun libro e in nessun documento! Da piccola sentivo mio nonno raccontare delle storie sulla morte del principe Gironimo. Si diceva che piovve per quaranta giorni di seguito, poi arrivò un caldo che seccò tutte le piante. Le vacche partorivano vitellini morti. Era una punizione divina. I miei compaesani pregavano in Chiesa Sant’Elia perché facesse cessare quei flagelli. E così fu. Un bel giorno le cose ripresero per il verso giusto, e tutti, diceva mio nonno, vollero dimenticare la morte del principe. Naturalmente, l’immaginazione popolare avrà esagerato qualcosa, ma forse un nucleo di verità in queste dicerie ci sarà. Forse, ai rocciacavatesi la loro storia non piace!».
A volte, prima di rientrare a casa per il pranzo, indugiavo un po’ a sorseggiare un aperitivo in un bar e davo un’occhiata agli appunti, al paese, ai suoi abitanti. L’impressione del primo giorno non era mutata. La maggior parte delle costruzioni nuove erano addossate alle pareti rocciose della parte più alta del paese. Le poche volte che ero capitato da quelle parti del paese ne avevo ricavato l’impressione di stare in cantiere. Di primo mattino si vedevano autocarri, dumpers carichi di rena ansimare sull’asfalto, e lasciare una scia di sabbia, rena, pietrisco. Autobetoniere scendevano, salivano, spargevano mucchi di cemento ai lati della strada. Ruspe sollevavano voluminose benne pronte ad affondare le zanne nella roccia, a percuoterla, addentarla in un ruggito belluino. Tanta alacrità mi procurava un senso di fastidio. Un’improvvisa ricchezza sembrava essersi riversata nelle loro tasche, e i rocciacavatesi, forse per rispetto all’etimologia del nome, si erano messi alacremente a scavare nella roccia. Ciò che mi sfuggiva era il senso di tutto quel costruire, perché il numero dei vani superava di gran lunga quello degli abitanti. Il paese non aveva nessuna attrattiva per il turista, anzi le poche vestigia erano state del tutto rimosse, quindi quell’affanno edilizio non aveva neanche uno scopo speculativo.