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Rocciacavata (1994) - Terza parte

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Tiziano, Ritratto di Carlo V a cavallo
Nei giorni festivi la biblioteca era chiusa, perciò preferivo concedermi qualche distrazione. Di solito accadeva che mi incamminassi lunga la campagna. Andavo a visitare i conventi del paese. Del convento dei domenicani restava solo una facciata sventrata ai cui piedi parcheggiavano macchine. Di quello dei cappuccini era rimasto ancora qualche brandello, anche se la chiesa era ormai fatiscente e il tetto rischiava di crollare. Per arrivare al convento dei cappuccini, scendevo per la Porta Nova, posta a sud dell’abitato. Era una delle quattro porte, disposte sui punti cardinali, che un tempo, quando il paese era circondato dalle mura, erano le uniche vie d’accesso. Come avevo rilevato da un documento, il convento era stato fondato nel 1588, con commissione dell’Ill.mo Rev.mo Monsignor Carafa, e colla presenza di Sua Eccellenza il Princepe Saverio Antonio, Signore di tutte le terre di Rocciacavata, che vi donò mille docati, quali si spesero parte nella fabbrica, e parte in comprare il sito, del quale se ne riserbò il dominio nel caso se ne andassero i frati. Quella era la campagna dove un tempo signoreggiavano i principi di Rocciacavata. Immaginavo l’orgoglio e la vanità del principe Gironimo sorvegliare dall’alto del castello i suoi possedimenti. Percepivo l’orgoglio del capo, che sa di essere solo a decidere; gli uomini, anche i migliori, son quel che sono, e ai collaboratori, anche i più fidati ed esperti, non ci si poteva rimettere in tutto; persino nei rapporti con i suoi famigliari, persino là qualcosa strideva. Lui solo aveva salvato dalla rovina il feudo. Per educazione politica era portato spesso ad eccessivo ponderar i pro e i contro di ogni questione, con pedanteria quasi, testardo, cocciuto. Rocciacavata era l’ultima tappa che mi ero riservata prima di consegnare definitivamente la ricerca all’editore. Il personaggio mi aveva affascinato. Aveva avuto l’abilità di salvare il feudo da un situazione finanziaria disastrosa. Sul suo capo pendevano le grinfie rapaci del Re, disposte a sacrificare la vittima alla ragion di Stato. Sua Maestà pregustava il momento della dismissione del feudo.

Sembrava che nulla potesse salvarlo dalla rovina. Il padre di Gironimo, Saverio Antonio, s’era indebitato per compiacere il suo Signore e Imperatore Carlo V, por el serviçio de Su Majestad Cesarea, che non aveva disdegnato al momento opportuno la fedeltà e l’aiuto militare del suo vassallo. Il principe aveva, infatti, combattuto a lungo negli eserciti imperiali e vi si era spesso distinto. Ma la partecipazione alle guerre di Carlo V lo aveva notevolmente danneggiato, e causato la prima grande espansione dei debiti della casa. Quanto a prodigalità neanche scherzava. Come riferiva una cronaca dell’epoca, el principe Saverio Antonio illustrissimo ricevette con tanta magnificenza et larghezza lo Imperatore Carlo V quando ritornò d’Algieri, che ne restò maravigliato l’Imperatore stesso, et i tedeschi a cui furono spalancate tutte le cantine, et date loro in preda le botti de vini pretiosissimi. Debole di carattere, pigro, amava il fasto spagnolesco, la fatuità della vita, le belle dame, e si dilettava grandemente nella caccia, nella quale spese di molto tesoro. Nel feudo le travi scricchiolavano, ma il principe Saverio Antonio aveva la mente invischiata altrove. Un suo agente lo aveva persino esortato a non redurre il stato a lume di candela, et guardi Dio di questo fine, perché vedemo giornalmente che si vende per diece quello che vale cento. Sua moglie si era umiliata e, ricordando le benemerenze del principe, aveva pregato il Re Filippo II di avere consideration al excesso y desorden con que el principe su marido gasta y consuma su hazienda con ruyna de su casa y notable. La principessa madre aveva rivolto a Filippo II una richiesta di sussidi, quando la cattiva amministrazione rivelò in pieno le disastrose condizioni finanziarie del regno. In risposta, El Rey Prudente non solo negò l’aiuto alla principessa, ma si disponeva ad ordinare al viceré di provvedere ad interdire il principe e a nominare un curatore: Cesare ha bisogno di denari, era questa la chiave di volta della politica spagnola. Le manovre si concretarono ben presto in un intervento del potere regio negli affari e nell’amministrazione del feudo, che assunse subito i caratteri di una vera e propria operazione di alta politica feudale, mirante a destabilizzare il feudo per stroncarne ogni possibilità di iniziativa autonoma. La principessa madre, prima dell’inevitabile, si prodigò perché innanzi tempo il principe fosse interdetto e devolvesse lo stato all’unico figlio ed erede Gironimo. Ma la morte del principe Saverio Antonio per idropisia stroncò tutti questi maneggi. Il Rey dovette prender tempo prima di mettere in atto il suo piano, ora che a governare c’era un’altra tempra. I debiti e le controversie ancora accese sull’eredità erano cadute sul nuovo principe, impegnato ad assolvere i suoi impegni. Il primo tentativo di rimettere in sesto le finanze della casa fu fatto procedendo all’affitto delle sue rendite e ad una limitazione generali delle spese. Questa operazione aveva dato un po’ di respiro al patrimonio del principe, che si era già visto esposto i suoi domini alla pubblica asta. Il ricavato fu in gran parte devoluto al pagamento dei debiti. Successivamente, il principe aveva combinato un matrimonio tra sua figlia Letizia e il duca Alfonso: era il primo avvio alla fusione dei due rami. Il matrimonio aveva consolidato la posizione finanziaria del principe. Poi a salvarlo definitivamente sopraggiunse la tragedia del duca...
E così la mente mi riportava alla ricerca storica, e al principe. Avevo rovistato in quegli ultimi anni altri luoghi, altri archivi, altre biblioteche. Se non sbaglio, mi sembra che fu proprio in una di quelle prime passeggiate in campagna che mi resi conto ch’io, sino a quel momento, non avevo mai avuto il desiderio di compiere un viaggio per conoscere da vicino quei luoghi. Ormai erano anni che stavo portando avanti la mia ricerca sul principe di Rocciacavata, eppure l’idea di visitare i luoghi dov’egli aveva regnato non mi aveva mai sfiorato la mente. Come se prima del mio arrivo una forza sconosciuta m’avesse addirittura impedito di pensarci. Ora che calpestavo il suolo del suo regno e riempivo le narici della sua campagna odorosa mi sembrava del tutto ovvio che un altro al posto mio avrebbe avuto questo desiderio sin dalle prime volte in cui avesse sentito nominare Rocciacavata. A me, invece, l’idea astratta che mi ero figurata nella mente su di esso mi era sino a quel momento sembrata sufficiente per elaborare le mie ipotesi storiche su quella famiglia. Voglio dire che se ero capitato là non era perché avevo bisogno di conoscere meglio quei luoghi, bensì soltanto perché pensavo di trovare nell’archivio della biblioteca qualche documento importante ai fini della ricerca. Se quell’archivio si fosse trovato in un’altra città, probabilmente non mi sarebbe mai venuta l’idea di andare a Rocciacavata. Il luogo geografico che mi ero costruito nella mente, leggendo Barrio e Marafioti, Padre Fiore o Pacichelli, ecc., mi sembrava del tutto sufficiente per procedere nella ricerca. Era come se pensasssi che la conoscenza diretta di quei luoghi non mi avrebbe fornito nessun contributo. Potevo ben dire che della storia di Rocciacavata conoscevo ogni minimo dettaglio, ogni particolare come se avessi abitato quei luoghi sin dalla nascita. Invece, il giorno della mia prima passeggiata per le sue stradine, mi rendevo conto di come l’abitato non corrispondesse affatto alla mia immagine, di come fosse completamente cambiato rispetto alla Stampa del Pacichelli, tant’è che se la vecchia non mi avessi fatto affiancare quel suo nipote probabilmente avrei rischiato di girare a vuoto.

Una mattina la baronessa non passò in biblioteca, così decisi di farle una visita. La baronessa abitava in uno dei quattro palazzi più antichi del paese, non molto distante dalla biblioteca. Era un palazzo massiccio sul cui portone c’era ancora lo stemma di famiglia, piuttosto scalcinato. Avevo sollevato il batacchio più volte, fino a che non era apparsa una nonnina avvolta in una mantellina nera, alla quale domandavo della baronessa. Mentre spiegavo chi fossi e la ragione della visita, salivo, per rispetto della sua età avanzata, adagio una rampa di scala che sovrastava il piccolo cortile, fino ad arrivare su un pianerottolo dove apparivano due porte. Aveva aperto quella alla nostra sinistra, che immetteva subito in un salone stile ottocentesco. Mi aveva fatto accomodare su una poltrona, e, senza nulla dire, si era dileguata in un’altra stanza. Tutti gli arredi del salone sembravano appartenere al secolo scorso, c’erano mobili da fare invidia a qualsiasi antiquario, e anche il soffitto era ammirevole, come la sua libreria in noce. Dopo una breve attesa, la baronessa compariva. Con il suo solito portamento elegante, si presentava vestita di una camicetta nera di raso, alla quale si univa una stretta gonna di seta vaporosa a fiorami chiari. Aveva il collo scoperto e la sua faccia, di una carnagione bianca e delicata, non rilevava nessuna sorpresa nel vedermi apparire quel giorno. Anzi, aveva proteso la mano e mi diceva che si aspettava la mia visita. Una mia espressione confusa accoglieva le sue parole. La baronessa mi ringraziava. Ma avvertivo nel tono una leggera ironia. Cominciavo a pentirmi della visita un po’ avventata e, forse, indiscreta, ma poi i suoi modi diventavano così cordiali da togliermi ogni imbarazzo. Un sorriso affiorò sulle sue labbra mentre allentava la stretta della mano. Tentavo di giustificare quella visita. In fondo, osservavo, lei ed io eravamo gli unici frequentatori della biblioteca. «Che vuole farci!», disse allargando le braccia: «I miei concittadini hanno più voglia di ingrassare il portafoglio che non la capa! Sono devoti al dio Mercurio. Ma le confesso che in paese non tutti sono fatti a questo modo. Ci sta pure gente che è talmente istruita che non sente neanche il bisogno di sapere come è fatta una biblioteca». Mi aveva fatto accomodare sulla poltrona e, chiamata la vecchia domestica, le diceva di portare una bottiglia di moscato. Osservavo i suoi occhi leggermente infossati, castani, dall’espressione un po’ sognante. Chiedevo che cosa avesse voluto dire con quelle sue parole. Non riuscivo a decifrare il tono della sua voce: «In ogni paese c’è sempre una conventicola di gente che si crede d’essere la vestale dell’arte. C’è, ad esempio, Don Vincenzo, il parroco che passa il tempo più a recitare versi che messe. C’è Don Pietro Campano, direttore del foglio locale, “Il grido di Rocciacavata”, che quand’era giovane e studiava a Napoli ha conosciuto nientedimeno che Don Benedetto Croce, di cui può solo vantare di possedere l’opera omnia, ma intonsa. C’è il pittore Leandro, che ha trascorso qualche mese della sua vita a Parigi, e che ora dipinge scorci genuini e selvaggi della sua terra. C’è Armando, un impiegato comunale, che sta scrivendo un romanzo sulla sua sagra familiare. E altri, i cui nomi non valgono nemmeno la pena di una breve citazione. Come può constatare, Rocciacavata è un paese che tiene accesa, sotto una coltre di cemento, la fiammella dello spirito». La baronessa con il mento appoggiato sul palmo della mano aveva ripreso a parlare: «Io sono partita dalla provincia e alla provincia ho fatto ritorno, ma con animo perturbato e commosso. I miei paesani si credono d’essere cittadini del mondo, e non si accorgono d’essere dei poveri untorelli della penna e del pennello. Non mi possono soffrire perché io non mi diletto a scrivere versi, romanzi o novelle: io sono una lettrice e basta. E se dietro ad ogni lettore s’annida un critico, invece, dietro ad ogni artista ci sta sempre un complice». I suoi occhi assumevano un’espressione ancora più vaga e sognante. Le domandavo per quale ragione aveva preferito tornare a vivere in quel posto culturalmente desolato e non aveva scelto invece di vivere in una grande città. «A chi, come lei, professore, osserva le cose da lontano, cioè dall’esterno, Rocciacavata appare soltanto un paesuzzo di provincia, completamente chiuso al traffico delle idee. Ma per me è un luogo dove è possibile cogliere il ritmo metafisico del tempo: quello che mi fa apparire le cose come rallentate, e mi dà la possibilità di stare attenta al cambio di stagioni, all’eterna ripetitività del tempo, e ciò mi fa vedere accresciuti i difetti del nostro tempo, l’attivismo proprio delle grandi città, che guardano alla grossa e se ne contentano, perché il ritmo appare sempre vario e mutevole, sebbene poi questa diversità sia illusoria, un prodotto della moda, che riesce a far sembrare un’intensificazione di vita ciò che più propriamente si direbbe assai prossimo alla morte».

Le ultime parole della baronessa mi avevano lasciato alquanto perplesso. Nel momento in cui le ascoltava, non ne avevo afferrato pienamente il senso. Ma non m’era sfuggita una critica sottile al senso stesso di scrivere la storia. E io ero e sono uno storico. La storia misurato con la cifra dell’eternità si riduceva ad una minuscola scintilla. Ma non si trattava soltanto di questo; anzi, questo contrasto era un aspetto secondario. M’aspettavo una spiegazione ulteriore, ma ancora non mi ero abituato allo stile della baronessa, che amava lasciare in sospeso i suoi ragionamenti, per poi magari riprenderli in un’altra circostanza e in un momento del tutto inaspettato. Cambiando completamente il tono della conversazione, la baronessa mi chiedeva quale ragione mi avesse spinto ad occuparmi della famiglia dei principi di Rocciacavata. «Sono anni che lavoro intorno ad una mia ipotesi di ricerca. Secondo me, i principi di Rocciacavata hanno avuto un ruolo non marginale nella politica di dominio del Mediterraneo. E questo faceva del feudo di Rocciacavata un tassello importante nello scacchiere difensivo nella guerra contro i turchi. Per questo sono giunto alla convinzione che il Re Filippo, quando s’accorse che non poteva fidarsi della famiglia del principe, ha cominciato a brigare per smembrarne il feudo. Il Re era convinto che il principe stava per passare dalla parte dei francesi, e che per la Spagna perdere quella posizione di dominio sarebbe stato un fatto grave». Ma a lei non risultava che il principe da me citato avesse poi effettivamente tradita la fiducia del re. Mi chiedeva se le sue conoscenze a tal proposito fossero lacunose. «Ha ragione, signora baronessa...». Mi aveva interrotto per dirmi che potevo chiamarla semplicemente Clara. «Ha ragione, dicevo, Clara. Ma io ho raccolto una serie di documenti che comprovano i sospetti del re: esiste un’informativa trasmessa dal viceré alla Corte, nella quale si dice che i turchi mostravano per il principe un interesse e una curiosità inaspettata. Il principe, in effetti, aveva dei contatti riservati con la diplomazia francese ed era intenzionato a passare dalla loro parte. Il perché poi non l’abbia fatto non sono riuscito ancora a chiarirlo. Spero che tra i documenti che sto esaminando in biblioteca riuscirò a trovare una risposta a questo mio quesito». A Clara la mia ipotesi sembrava interessante. Prima di congedarmi, sull’uscio di casa mi aveva suggerito, per quanto la cosa forse non avesse alcuna importanza, di fare una visita a Don Vincenzo, il prete nominato prima. Sapeva che possedeva documenti riguardanti delle dispute tra i due cleri delle chiese più importanti di Rocciacavata. Chissà, mi diceva, potevano tornarmi utili! E mi sollecitava ad analizzarli con cura, con molta cura. Documenti irrilevanti da esaminare con cura! La baronessa forse non si rendeva conto della contraddizione. Ma nelle sue ultime parole avevo percepito un sottile tono di sfida, come di chi voglia in realtà dire: «Vediamo se lei è capace di trovare quello che nei documenti del prete non c’è scritto». O qualcosa di simile.


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