Il sogno e la chimera.
L’ombra lunga della sera.
Case viste da lontano.
Sogni cari ai miei pensieri.
Prima di arrivare a Rocciacavata pensavo di avere le idee abbastanza precise sul conto di Gironimo, tutt’al più dovevo trovare soltanto conferma alle mie intuizioni: e, invece, ora il quadro risultava sbiadito, come una scritta esposta al sole e alla pioggia che gradualmente si stinge fino a diventare del tutto illeggibile. Avevo bisogno di un chiarimento interiore. Pensavo che concedermi un giorno di riposo m’avrebbe aiutato a ritrovare un contatto diretto con le cose. Vivevo in uno stato di smarrimento. Anche Filomena se n’era accorta, ma i suoi sorrisi mi facevano capire che fraintendeva la ragione. Avevo seguito il consiglio di Clara di leggere l’opera del Vasari. Il giorno in cui ero andato a chiederle se tra la data della tragedia e quella della morte del medico ci fosse un nesso, mi era sembrato che Clara, ad un certo punto, avesse interrotto la lettura come se volesse nascondermi qualcosa di importante. Non avevo dato a quell’esitazione gran peso, ma ora, alla luce dei nuovi elementi che cominciavano ad affiorare intorno a questa storia, anche le pause e i silenzi si caricavano di significati. D’altronde, pensavo, anche se non avessi trovato nulla di significativo, rileggere Le vite del Vasari non sarebbe stato mai tempo perso. Mi ero procurato in biblioteca anche una monografia sul Parmigianino, che avevo per prima cosa iniziata a sfogliare. Ad un certo punto ero rimasto colpito dall’immagine di un suo quadro. Si trattava di un dipinto su tavola che il pittore aveva lasciato incompiuto: La Madonna dal collo lungo. Lo esaminavo con cura: anche in questo dipinto compariva il particolare simbolico delle colonne lunghe che si perdevano nel vuoto. Ma la posa del ritratto richiamava quella di Lorenzo Cybo: uguali l’eleganza cortese e astratta dei personaggi, e la loro vivezza interiore.
Tra il duca e il Parmigianino c’era dunque un legame insospettabile: il pittore che aveva eseguito il ritratto del duca s’era senza dubbio ed esplicitamente ispirato a quei dipinti. C’era una similitudine stupefacente anche nelle atmosfere, entrambe avvolte da un alone metafisico. La passione per l’acquaforte aveva accomunato il duca al pittore di Parma, si potrebbe dire, anche nella morte, perché entrambi, per una fatale coincidenza, erano morti all’età di trentasette anni. Avevo cominciato a leggere il libro del Vasari, e le coincidenze si moltiplicavano: leggevo come il Parmigiano fosse morto stranito e disperato, mentre si torturava in tal modo il cervello che era una pena a vederlo. Ero arrivato al punto in cui Clara quel giorno aveva interrotto la lettura:
«... perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legne, boccie di vetro ed altre simili bazzicature, che gli facevano spendere più in un giorno... si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco... fu assalito, essendo mal condotto e fatto malinconico e strano, da una febre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita». Vasari collegava la morte del pittore alla sua passione per l’alchimia: le sostanze chimiche avevano indebolito il suo fisico fino alla morte. Anche un altro biografo accreditava questa ipotesi: «Non contento di così largo favore ricevuto dal Cielo, che vedendo per vitio dell’età prevalere alle virtù l’oro, gli entrò nel capo di voler attendere all’alchimia, et si lascia corrompere di maniera à questa pazzia, che si condusse a pessimo disordine della vita, et dell’honore, et di molto gratioso ch’era, divenne bizzarrissimo, et quasi stolto». Ora cominciavo a capire dove potevo trovare la connessione tra il duca Alfonso e il Parmigianino: la causa della loro cosiddetta pazzia dipendeva dall’uso di sostanze chimiche di cui entrambi ignoravano gli effetti deleteri. Ma questo nesso non mi sembrava così importante da essere avvolto in quell’aria di mistero che Clara amava spargere intorno a questa vicenda. Aver scoperto che la causa del comportamento strano del duca fosse legata alla passione per le acqueforti non meritava certo tutta quell’attenzione. E, in ogni caso, la scoperta non chiariva il nesso tra la morte del duca e quella del medico Domenico Savio. In fondo, la cosa era partita da lì. In sostanza, ero al punto di partenza.
Nei giorni seguenti, il problema, che fino a quel momento aveva guidato la mia ricerca, cominciava a chiarirsi: dai vari elementi raccolti, nonostante il principe avesse distrutto gran parte della compromettente documentazione, avevo intuito che in cambio dell’alleanza, i francesi lo avrebbero aiutato ad estinguere i debiti. C’erano a proposito trattative in corso, missive segrete scambiate con l’ambasciatore francese. Ma qualche mese prima della tragedia, il principe aveva cambiato idea. La cosa mi sorprendeva, perché, dato il suo carattere cocciuto e testardo, mi sembrava incomprensibile la sua volubilità. Può darsi, pensavo, che alla fine non siano riusciti a trovare i termini di un accordo e che l’alleanza fosse così sfumata. Restava comunque il fatto che l’affitto delle rendite aveva dato soltanto un attimo di respiro al principe: la situazione finanziaria precipitava, e la sua soluzione non poteva più essere rimandata. Ero uscito dalla biblioteca con questa idea. Volevo andare al mio solito bar a bere l’aperitivo, ma una autobetoniera ostruiva il passaggio. Una imprecazione m’era scappata contro quel paese trasformato in cantiere. In quel momento gli scolari avevano invaso la piazza. S’era creata in un attimo una gran confusione: quella piazza sembrava in preda ad una crisi isterica. Un vigile s’avventava fischiando contro le automobili irretite dal traffico. In quel caos avevo intravisto la figura di Clara. Forse era visibile nei miei occhi l’espressione disperata di fronte a quella convulsione. Mi chiedeva, gridando e sorridendo, perché mi ostinavo a continuare quel lavoro, quando era evidente che ai suoi paesani non interessava affatto: «Lei ancora non ha capito che sono seguaci del dio Mercurio». Aveva parlato con fare sibillino; io m’ero offerto nel frattempo di portarle i libri che teneva in braccio, ma lei aveva rifiutato. Eravamo quasi arrivati sotto il portone di casa. Le avevo parlato delle mie ultime scoperte. Mi congratulavo per la sua perspicacia nell’aver intuito la causa della pazzia del duca. Però, le dicevo, ancora non ho capito quale connessione tutto ciò avesse con la morte del medico di corte. «Per rispondere a questa domanda, lei dovrebbe ragionare di più su alcuni elementi della vita del Parmigianino e del duca». Aveva richiuso il portone. Notava sulla mia faccia segni di sconforto. Quello stillicidio di notizie aveva provocato nel mio animo un senso di stanchezza. Sulla soglia delle scale, aveva cominciato a dire: «Lei, professore, non ha considerato che l’acquaforte rappresentava per il Parmigianino il frutto di una ricerca di uno spirito colto, intellettualmente inquieto. Il desiderio dell’artista di sublimare la materia lo portava a sperimentare ogni forma esistente, ad inserirsi in quella corrente ermetica che vedeva una nota equivalente tra l’alchimia e l’acquaforte. Il Parmigianino era tutto intento a perfezionare il modo di incidere all’acquaforte; la sua attività di acquafortista va dunque collegata alla visione stessa dell’artista, alla sua smania di perfezione che lo portava ad indagare la materia per coglierne gli intimi segreti. L’alchimia allora è la chiave per entrare nel suo mondo pittorico. Per il duca, invece, l’acquaforte è soltanto un diletto, un innocuo passatempo che si concedeva nei momenti di riposo, cioè egli non era stimolato a compiere quella ricerca per il perfezionamento dell’arte. Lei ha continuato a ragionare su un equivoco: ha posto una equivalenza tra la pazzia o il traviamento del Parmigianino e quella del duca, e non ha notato la sostanziale differenza che le divida». Con queste ultime parole mi aveva congedato.
Anche al pittore, dunque, era capitato la stessa sorte del duca, ed entrambi erano appassionati dell’arte delle acqueforti, ma il duca non si dilettava d’alchimia. Era su questa traccia che Clara voleva indirizzarmi. Ma non capivo ancora cosa potesse rivelarmi questa differenza. Ero ritornato nella mia stanza e avevo ripreso a leggere la monografia sul pittore. D’improvviso un’illuminazione mi aveva folgorato quando ero passato a leggere che un biografo, basandosi su quelle notizie del Vasari, ipotizzava che la morte dell’artista potesse essere stata causata da un «avvelenamento da mercurio», usato appunto dagli alchimisti, e che si verifica in un soggetto di debole costituzione. Clara aveva parlato di processi chimici non controllati e manipolati. C’era dunque qualche elemento che poteva scuotere il sistema nervoso. La febbre mercuriale! Si trattava dell’azione tossica sprigionata dai vapori di mercurio, che colpisce chi maneggia il mercurio e i suoi sali, ed era un effetto già noto ai greci e a romani. Ero caduto in preda ad una convulsa eccitazione. Mentre cercavo di documentarmi meglio sui suoi effetti, mi accorgevo come tutti i sintomi coincidevano con quelli descritti dal medico di corte: anche il duca come il pittore era di costituzione fragile. Ora sembrava che il mistero della pazzia del duca cominciasse a dissolversi. Il duca Alfonso nei suoi lavori di acquafortista faceva uso soltanto di acidi, che non avrebbe potuto mai procurargli la febbre mercuriale. Anche la frase sibillina di Clara sui suoi paesani devoti al dio Mercurio assumeva un senso: come se nel loro inconscio avessero sempre saputo la verità e l’avessero portata dentro come un marchio di vergogna. Non era nemmeno importante adesso capire come il principe Gironimo aveva saputo provocare quella febbre. Non ricordavo neanche il nome del medico che aveva redatto quel referto, anzi forse non lo avevo neppure letto perché all’epoca lo ritenevo del tutto superfluo. Ma alla luce dei nuovi fatti non mi sarei sorpreso se avessi letto il nome di Domenico Savio. Forse questo medico aveva scoperto qualcosa di interessante sulla malattia nervosa del duca, avanzato qualche sospetto, parlato con qualcuno, firmando così la sua condanna a morte. Cominciavo a capire lo scopo del viaggio del conestabile presso la corte del duca: cercavano un soggetto adatto per il loro diabolico piano. Nella mente i tasselli del mosaico cominciavano a ricomporsi. La morte del medico, a ridosso della tragedia, la permanenza del conestabile alla corte del duca, i sintomi di una malattia nervosa provocata da vapori mercuriali, la decisione del principe di fare retromarcia nella sua politica di alleanze: sotto la pressione di questi nuovi stimoli, gli avvenimenti, prima così poco chiari, riprendevano il loro ritmo, il loro ordine e si presentavano più intelligibili. Cominciavo ad avvertire un’inquietudine difficile da placare, e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale della mia esperienza, oltre che di studioso, umana. Cominciavo a capire perché il conestabile nella lettera non aveva fatto riferimento ai sintomi di pazzia: non erano ancora apparsi. Era facile scambiare quei tremori, quegli scatti d’ira per pazzia: bisognava soltanto diffondere la voce, spargere il veleno della calunnia e del mercurio, e poi tutto il resto sarebbe venuto da sé. Di questi segni non era prudente parlare per lettera. E cominciavo a spiegarmi anche la sua decisione di non accettare l’offerta dei francesi, che avrebbe compromessa la sua libertà d’azione. Al principe venne senza dubbio un’altra idea migliore, meno rischiosa e in grado di salvaguardare l’integrità del regno: combinare un matrimonio, trovare il modo per impossessarsi dei beni del genero uccidendo la propria figlia. Quando ormai le sue stranezze s’erano ormai diffuse per tutto il regno non è stato difficile far bere un sonnifero all’ignaro duca, penetrare di notte nella stanza, pugnalando più volte la moglie e organizzare per la servitù quella messinscena. La grandezza della tragedia avrebbe finito con l’offuscare ogni altra considerazione. Solo un essere dal cuore malvagio avrebbe avuto l’ardire di avanzare sospetti. Se tutto quel che mi attraversava la mente si fosse nel tempo rivelato vero, anni di ricerca sfumavano sotto i miei occhi. Ma non era tanto questa la cosa che più mi indispettiva. Lo storico deve avere il coraggio di rimettere in discussione quando le cose non tornano. Ciò che mi indispettiva era altro: non so per quale contorto ragionamento, ma io mi sentivo ingannato dal principe, come se fossi stato tradito dall’amico più caro. Mi ero fidato, sì, fino a quel momento mi ero fidato della sua bontà, della sua lealtà, ed ora scoprivo non solo un’anima crudele, ma un’anima meschina. Mi chiedevo che cosa avesse potuto spingerlo a commettere un delitto così atroce e inumano. L’onore, pensai, e la sete di potere.
Fantasticavo: su quella rabbia secolare, su quella voglia di seppellire sotto una coltre di cemento il loro passato; sulle parole di Clara; su quelle risonanze sotterranee tra il duca e il Parmigianino. Forse gli abitanti di Rocciacavata nel loro intimo hanno sempre saputo quale fosse la verità su quella tragedia. Nei secoli, in una espressione particolare degli occhi, quella verità di generazione in generazione era stata tramandata: un delitto così orrendo non può essere svelato ai propri figli con le parole, ma soltanto attraverso un dialogo intrecciato di gesti e di sguardi. Da tempo aspettavano che un «forestiero» li liberasse da quella colpa; dalla colpa del silenzio per non aver mai avuto il coraggio di portare alle labbra la verità; perché quella colpa, per come il delitto era stato concepito ed eseguito, non ricadeva soltanto sul principe ma sulla comunità intera. Clara aveva rotto quel silenzio: la verità giaceva tra quelle carte vecchie, che da sé non potevano parlare; prima di svelarsi occorreva che io precisassi lo sguardo, mutassi nel mio intimo di osservare e interpretare la realtà.
Fantasticavo: ricordavo che il duca aveva fatto qualche tempo prima della tragedia un viaggio a Bologna e a Parma. Aveva il fisico debilitato dalla sua malattia inspiegabile. M’era venuto in mente che forse lì avrà avuto modo d’ammirare le opere del Parmigianino; sarà rimasto incantato da quell’artista. Avrà riprodotto qualche schizzo da quei ritratti; poi avrà voluto conoscere qualche particolare sulla vita del pittore. Qualcuno gli avrà parlato della sua morte strana; gli avrà persino riferito degli ultimi giorni di tormento. E per uno di quei misteri insondabili, che nessuno storico riuscirà mai a svelare, il duca avrà intuito che un filo invisibile legava il suo destino a quello del Parmigianino. Chissà, il ritratto voleva essere per noi posteri la testimonianza di quell’oscuro presentimento... o altro.