«Oggi, a più di trent’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici andrebbe semplicemente abolita». Non usa mezzi termini Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto civile all’Università La Sapienza di Roma ed ex presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali.
Professore, ma si può obbligare un medico ad agire contro la propria coscienza?
«Quando la legge è stata approvata la clausola dell’obiezione di coscienza era ragionevole e giustificata: i medici avevano iniziato la loro carriera quando l’aborto era addirittura un reato ed era comprensibile che alcuni di loro opponessero ragioni di coscienza. La legge 194 ha saggiamente raggiunto un difficile equilibrio tra il diritto dei medici a non agire contro la propria coscienza e quello della donna a interrompere la gravidanza. Oggi però chi decide di fare il ginecologo sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, che rientra nei suoi obblighi professionali e non è più ragionevole prevedere una clausola per sottrarvisi».
Ma ritiene che una tale modifica sia concretamente fattibile?
«Temo di no, in questi anni abbiamo assisitito a una generale stigmatizzazione delle donne che abortiscono e si sono fatti tentativi legislativi – penso alla proposta di legge regionale del Lazio di modifica dei consultori – che vanno nella direzione opposta. Ma per garantire il diritto delle donne all’interruzione di gravidanza, non è necessario cambiare la legge, basta applicarla.
In che senso?
«Già oggi gli ospedali non possono trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché questo è un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194, e le strutture che non lo garantiscono possono essere considerate responsabili sotto il profilo civile e penale».
Può essere sufficiente ricorrere a non obiettori ‘a gettone’, come già fanno alcuni ospedali?
«Ritengo di no, per due ragioni: innanzitutto perché per gli aborti terapeutici è necessario avere personale strutturato e in secondo luogo perché non devono crearsi medici di serie A che fanno tutto il resto e medici di serie B che fanno solo aborti, con il rischio di una dequalificazione professionale. Gli ospedali possono, e devono, invece fare dei bandi per l’assunzione di personale strutturato non obiettore».
Ma non si configurerebbe come un trattamento discriminatorio nei confronti degli obiettori?
«No, perché si tratterebbe di adempiere a un obbligo normativo a cui gli ospedali non possono sottrarsi. E si tratta di un obbligo della massima importanza. In questione infatti non c’è solo il diritto all’interruzione di gravidanza, ma il diritto alla salute della donna, che è un diritto fondamentale della persona e che non è mera assenza di malattia, ma benessere fisico, psichico e sociale. Se una donna che ha deciso di interrompere la gravidanza vive questa scelta in condizioni di malessere e di angoscia perché non sa se, quando e in che condizioni riuscirà a interromperla, c’è una evidente violazione del suo diritto alla salute, che è un diritto fondamentale della persona che non può essere subordinato a esigenze burocratiche o a mancanza di personale».
Un diritto che in Italia è sempre più difficile vedere rispettato, tanto che sono sempre di più le donne che vanno all’estero.
«I due grandi obiettivi della 194 erano l’eliminazione degli aborti clandestini e il contrasto al fenomeno del turismo abortivo, che creava una sorta di ‘cittadinza censitaria’, per cui le donne che avevano i soldi salivano su su charter, andavano ad Amsterdam o a Londra e facevano l’interruzione di gravidanza senza correre il rischio di morire. Oggi purtroppo si stanno ricostruendo i meccanismi censitari e selettivi che con la 194 si volevano combattere».
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