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Roger Abravanel, Luca D’Agnese – “Regole. Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il Paese” – Garzanti, Milano 2010

Creato il 06 novembre 2010 da Fabry2010

di Alfio Squillaci

Una delle favole che noi italiani amiamo raccontarci è quella di una società civile più rispettosa delle regole a fronte di un ceto politico che nel frattempo abbiamo imparato a chiamare con disprezzo “casta”. Invero di caste che prosperano grazie a proprie regole imposte alla collettività ce n’è più d’una. Gli autori in questo libro ne segnalano alcune, dopotutto quelle contro cui Bersani tentò un assalto con le famose “lenzuolate”: i tassisti, i farmacisti, gli avvocati delle tariffe minime, i geometri, gli editori di libri scolastici, insomma quei mestieri e quelle professioni rinserrati in ordini merlati come in vecchi manieri. Ma l’intento degli autori non è quello di scagliare una categoria contro l’altra quanto difendere l’idea generale che rispettare le regole – non certo quelle che la propria casta impone agli altri ma quelle della concorrenza tra liberi competitori – è più conveniente e “paga” di più.

Impresa apparentemente disperata in un Paese dove ci si coalizza contro la norma e, solo per fare degli esempi, nelle statali lombarde (visto con gli occhi) ci si fa i segnali coi lampeggianti tra automobilisti per avvertire di un controllo della polizia in prossimità; dove, soprattutto nel Sud, non ci si associa volentieri per riparare il campanile della chiesa quanto piuttosto per delinquere; dove infine, un po’ dappertutto, si evade il fisco o si fingono incidenti automobilistici per frodare le compagnie di assicurazione. In un Paese siffatto, chi rispetta le regole è considerato un “fesso” o peggio un “nemico del popolo” come segnalava Ibsen in una sua spietata pièce teatrale. Infatti è un soggetto che canta fuori dal coro e non rispetta le regole. Quelle scritte e ufficiali? No, quelle correnti e tacite della privata convenienza o del “così fan tutti”. La nostra è una comunità nazionale nella quale il reprobo e il reo suscitano non solo l’ indulgenza interessata del cupio absolvi – io ti perdono al fine che tu mi possa a tua volta perdonare, ma soprattutto perché io mi possa perdonare -, ma aperta e incondizionata simpatia. L’Italia è stata per lungo tempo indicata – dai viaggiatori stranieri ad esempio-, come un Paese “corrotto e felice”; adesso è sempre ugualmente corrotto ma un po’ meno felice. Girano per la Penisola monsoni di astio e malanimo reciproci. Si è rotto l’incanto. “Le Pays où le mot fourbe est éloge” come segnalava il viaggiatore francese Grosley, è entrato in un loup micidiale anzi in una serie di circoli viziosi nidificati. Non sa come uscire da molte situazioni in cui è impossibile la convivenza se le regole valgono quando le interpreto per me e le applico su di te, o dove esse sembrano ridursi a quelle dell’assalto al forno di manzoniana memoria.

Questo libro di Abravanel e D’Agnese giunge in questo contesto italiano come il fischio di un arbitro in una partita che rischia di degenerare in zuffa e offre delle uscite di sicurezza dalla partita attuale o quanto meno l’inizio di una nuova. È un libro che sa e previene molte obiezioni derivanti da radicamento e persistenza di molte cattive regole, ed è dopotutto un libro ottimista: si stenta a crederlo vista la situazione di generale mugugno in cui tutti temiamo per la nostra tranquillità privata e per la coesione sociale della Nazione.

Questo è un libro essenzialmente di economia ma non indifferente ai riflessi sociali che l’agire economico comporta e a quelli mentali-culturali che per parte loro interagiscono sia sull’economia che sulla società. Affronta sullo scenario mondiale come in quello peninsulare il tema della de-regulation e della re-regulation nell’ambito soprattutto dei servizi. Perora nel caso nostro la necessità dell’allargamento dei recinti dei singoli ambiti di azione delle piccole imprese e, a differenza di molti osservatori che si sono compiaciuti della vitalità dei “piccoli” o dei cosiddetti “distretti”, dichiara in modo apparentemente controintuitivo ma logicissimo dal punto di vista economico che “piccolo è brutto anzi bruttissimo”. La strozzatura asfissiante in cui è posto da regole sbagliate il settore della distribuzione o dell’erogazione dei servizi pubblici anche locali è sotto gli occhi di tutti.

Ma non renderemmo un buon servizio all’intelligenza del volume se nascondessimo l’ambito quasi “antropologico” in cui cade talvolta l’osservazione dei due autori. Quando si usa questo termine spesso si suole sottolineare un carattere fisso e immodificabile del paesaggio morale osservato. Che gli italiani ad esempio difettino di “educazione civica” è un’osservazione che non richiede ulteriori precisazioni (ma a cui gli autori dedicano giustamente un intero capitolo). Ma sembrerebbe anche una dichiarazione di resa che rende impossibile ogni azione correttiva allontanando nei tempi della “lunga durata” – quali quelli delle mentalità o “del così fan tutti” – i processi di cambiamento, e alla distanza diventa quasi un alibi che invita all’inerzia riformatrice. Siamo fatti così: prendere o lasciare. Da pratici uomini di impresa ( e da consulenti veri e propri della Nazione) Abravanel e D’Agnese invece sanno perfettamente che nulla può resistere – anche i comportamenti più radicati – ai colpi di maglio di un’azione correttiva ben congegnata in un campo socio-economico ben delimitato, sia esso la giustizia civile, la RAI o i servizi pubblici locali. Questo tipo di approccio, ossia quello di indicare i punti di malfunzionamento dell’economia e della società e proporne i rimedi qui ed ora – gli autori ne avanzano uno davvero choc: la nazionalizzazione dei servizi pubblici locali! – dovrebbe essere il campo d’elezione della politica, quella nobile, quella che sa guidare e non seguire gli elettori e che dovrebbe coniugare valori e interessi fissandoli in regole nuove o correggendo le vecchie. Il fatto che invece se ne occupino due privati cittadini la dice lunga su come siamo messi nei “laboratori” della politica.

Più nel dettaglio gli autori sanno indicare con assoluta precisione e con ricchezza d’argomentazioni molti ambiti economico-sociali ristagnanti in crisi annose e irreversibili, attorcigliati in spirali di “circoli viziosi” senza fine. Una volta individuato un problema in un campo sociale o economico ben delimitato, messa in atto una strategia intelligente di contrasto (si ricordi una volta per tutte la “tolleranza zero” di Giuliani contro la criminalità), adottato il metodo del «prova e poi metti a punto» e raggiunto un punto di svolta, il suo tipping point, il problema, qualsiasi problema, entra in un “circolo virtuoso” e si risolve da sé. Dicevamo che gli autori non vogliono restare ingabbiati nelle trincee dei tempi lunghi dei cambi di mentalità e delle obiezioni sfiancanti; la loro è una strategia bellica ben precisa: è il blitz krieg, la guerra lampo. Si individua un settore d’intervento – la scuola, la giustizia civile, il fisco, il sistema dei media, l’evasione fiscale, la distribuzione dei medicinali, l’editoria scolastica – e si sfonda il fronte di resistenza. Da qui l’intonazione di fondo ottimista di Abravanel e di D’Agnese cui alludevo poc’anzi. «Analfabetismo sulle competenze della vita e maleducazione civica. Una giustizia civile a livello del Gabon. Media e regolatori spesso poco autorevoli e indipendenti. Regole che impediscono lo sviluppo di una moderna società di servizi perché proteggono il “piccolo bruttissimo” che sopravvive grazie all’evasione. Sembra una diagnosi senza speranza. Eppure il nostro paese può farcela».

Se quanto finora enucleato è il modello “consulenziale” di tipo pragmatico che funziona nelle aziende o in settori specifici dell’economia e della società, Abravanel e D’Agnese sanno tuttavia che in una società complessa come la nostra l’intervento settoriale non potrà avere successo se non accompagnato da un cambiamento della tavola dei valori: la “Magna Carta” del nuovo millennio da redigere su pochissimi punti condivisi da tutti. Il primo: la convinzione che la ricerca del benessere economico individuale è un obiettivo eticamente degno. Il secondo: la convinzione che le regole sono un buon affare. Il terzo: che le regole devono essere rispettate anche quelle sbagliate.

A me sembra un programma ideale molto chiaro e condivisibile e sono grato agli autori per averlo enucleato con tanta chiarezza e semplicità. Temo tuttavia che farà torcere le budella a molti italiani. Eppure, se non si accettano questi valori, quasi dei prerequisiti d’ingresso in società, lo spettro della rottura della coesione sociale è davvero incombente. Sarà poi vano il mugugno e l’invettiva. Gli italiani non sono gli “altri”.



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