Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 16 gennaio 2014
Ridurre del 10 per cento l’Irap è sicuramente un’idea che va nella giusta direzione, ma farlo con la tassazione delle rendite finanziarie è tutt’altro che facile. La tassazione sulla casa esiste quasi ovunque perché la casa si vede e non si muove, cosa che non è per le ricchezze finanziarie che sono difficili da tracciare e la cui tassazione rischia di produrre gettiti ridotti ed elevata evasione.
Si rivelerà probabilmente una pia illusione anche l’idea di aumentare la competitività delle piccole e medie imprese riducendone del 10 per cento il costo per l’energia. Intanto perché un quarto di questa riduzione si vorrebbe ottenerla eliminando quei contratti di favore per l’energia detti «interrompibili» perché le aziende possono interrompere la fornitura ottenendo uno sconto. È giusto eliminare questi sussidi utilizzati soprattutto da aziende in settori del passato e poco verdi come l’alluminio, l’acciao e la carta. Ma non sarà facile perché a breve alcuni impianti chiuderanno e la disoccupazione aumenterà. E poi non è chiaro dove il «jobs act» intenda reperire il resto dei tagli, dato che si limita ad indicare genericamente «ulteriori misure da parte della Autorità per l’energia».
Anche nella «green economy» (uno degli otto settori del «jobs act») lo Stato potrebbe giocare un ruolo di regolatore innovativo: il problema è che il Pd ha sempre sostenuto delle politiche di regolazione poco efficaci (per esempio gli incentivi delle rinnovabili). E ha appoggiato amministrazioni locali, soprattutto nel Centro Sud, responsabili di cattiva gestione dei rifiuti. È quindi un errore citare questo settore tra quelli da sviluppare senza accennare all’esigenza di una revisione profonda delle logiche seguite sinora, per esempio con una radicale nazionalizzazione delle politiche di regolazione che deve essere sottratta alle Regioni e ai Comuni.
Infine stona la presenza del «made in Italy» tra gli otto settori da sviluppare: qui lo Stato può fare ben poco come regolatore e committente perché questo settore è ormai esposto alla concorrenza globale. Le sfide del «made in Italy» hanno a che fare con l’incapacità del capitalismo familiare di valorizzare il capitale umano e la meritocrazia e su questo lo Stato e il «jobs act» possono fare ben poco. Avendo riconosciuto al «jobs act» il pregio di affrontare il problema della disoccupazione giovanile in un’ottica di crescita dell’economia, ci auguriamo che facciano seguito al più presto un «justice act» e un «education act». Con una giustizia civile con i tempi del Gabon, le imprese italiane non cresceranno e non creeranno posti di lavoro. E, senza una scuola italiana che si adeguerà al lavoro che cambia, le imprese continueranno a non trovare nei giovani le competenze per il 21° secolo, che non sono le professionalità tecniche, ma le capacità cognitive, l’etica del lavoro, la capacità di lavorare con gli altri e comunicare. Cose che oggi la scuola italiana insegna poco e male.