"Tratto dalla pièce Mani aperte sull’acqua di Luigi Bruno Di Belmonte, il film mette in scenza il classico salotto alto borghese: una duchessa, il marito industriale e tanti personaggi apparentemente rispettabili. In realtà è una sfilata di tipi squallidi: il barone ladro di gioielli, un arrampicatore sociale senza scrupoli, nobili che inscenano finti rapimenti e tentativi di estorsione, e persino una moglie che arriva a commissionare l’uccisione del marito armatore. Il destino di queste persone sarà la morte, i loro misfatti invece rimarranno senza colpevoli, un commissario di polizia troppo zelante verrà promosso e trasferito"
Facile e scontato comprendere perché, ad oggi, questo lavoro del regista romano abbia conosciuto scarsi passaggi televisivi (l’ultimo risalente a più di dieci anni fa) ed un’unica tremenda edizione in DVD, distribuita nelle edicole all’interno di una collana dedicata all’attrice Michéle Mercier: il film indaga senza pietà (un po’ come il protagonista, il commissario Tartamella) gli ambienti esclusivi della Capitale dove notoriamente, dietro la patina pulita del perbenismo più lambiccato, si celano spesso i peggiori vizi e le più infime derive umane. Tutto inizia come una commedia brillante, che intreccia sapientemente le esistenze dolci e noiose del parterre incantato. Pian piano le pubbliche virtù cominciano a sgretolarsi, le battute colte del commissario da sarcastiche si fanno più amare ed un’aria di morte comincia ad avvolgere tutti i protagonisti più illustri. Ed il nucleo attoriale del film diverrà esso stesso una vera e propria competizione di bravura tra protagonisti e caratteristi, tutti incredibilmente in parte: Nino Manfredi, Enzo Cannavale (doppiato in veneto), Franco Fabrizi, Mario Feliciani (imprenditore greco, troppo simile ad Onassis) ed Irene Papas (la moglie dell’imprenditore, troppo simile alla Callas), Virna Lisi, Philippe Leroy, Vittorio Caprioli e non ultimo per grandezza Gastone Moschin nei panni del "monsignore".
Incredibile constatare come ogni scena di Roma Bene valga da sola cento volte più di un qualsiasi film Italiano contemporaneo di tematica sociale/politica. Ed inquieta non meno riconoscerne il coraggio e la profonda modernità, che con molta probabilità trovava la sua possibilità d’esistere solo e soltanto in un mercato cinematografico tanto ricco e diversificato, com’era appunto quello dei primi anni ’70.
Epilogo crudele ma liberatorio per le scellerate vicende dei tanti personaggi in ballo, tanto geniale da essere copiato pedissequamente anni dopo da filmetti di discreto successo come Dead Calm (1989) di Phillip Noyce ed Open Water (2003) di Chris Kentis.
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