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Rosa Salvia legge un libro di Alessandro Ricci

Da Narcyso

Rosa Salvia legge un libro pubblicato postumo di Alessandro RICCI, poeta appartatissimo e misconosciuto. Un’occasione per presentarlo al distratto mondo della poesia e all’attenzione della critica.

ALESSANDRO RICCI, L’EDITTO FINALE, a cura di Francesco Dalessandro
prefazione di Domenico Vuoto Il Labirinto, Roma, 2014

di Rosa salvia

Ricci-editto
Questa raccolta di poesie di Alessandro Ricci (Garessio 1943 – Roma 2004), poeta e sceneggiatore (nel 1971 fra l’altro collaborò con Vittorio De Sica alla realizzazione del film Il diario di un maestro), ci raggiunge 10 anni dopo la morte dell’autore per cui è di per sé un avvenimento emozionante; e tanto più perché si tratta di una raccolta che a tutto fa pensare tranne che a un’aggiunta tardiva e pietosa rispetto alle precedenti pubblicazioni.

Davvero L’editto finale non è un libro di rimasugli, ma un libro naturalmente, vitalmente in fieri, un libro che sembra comporsi e prendere senso sotto i nostri occhi e quasi con la nostra collaborazione; un libro che ha l’aria di venire, più che dal passato, dal futuro. E ciò lo si deve in gran parte all’amorevole certosino lavoro di recupero dei testi da parte di Francesco Dalessandro, curatore dell’opera.

Inoltre, una poesia così vitale e controversa, dove luce propria e luce riflessa coesistono, non può sorprenderci, assomigliando moltissimo a tutto ciò che Alessandro Ricci è stato come poeta e come uomo, “un Werther leggero” (come egli stesso ama definirsi ne “La confessione”, ultimo grande testo della raccolta Le segnalazioni mediante i fuochi (1985). Leggero, ma non per questo meno tragico, come precisa Francesco Dalessandro nella sua nota alla plaquette L’arpa romana, sempre a sua cura, uscita nel 2007,  per le Edizioni Il Labirinto.

L’arpa romana, una raccolta propedeutica per la sua brevità a L’editto finale, citando lo scrittore Fabio Ciriachi che ha dedicato all’analisi di tutta la produzione poetica di Alessandro Ricci un lungo, complesso e dettagliato articolo, uscito il 21 luglio scorso su “Critica impura.”

La raccolta è divisa in sei sezioni.

L’io autobiografico, in continuo passionale scambio con il mondo, è il punto di riferimento

forte e autoironico, naturale e trasgressivo, della parola poetica.   

Poesia intimistica che in molti casi rimanda a Penna con illuminazioni improvvise di straordinaria freschezza.

Poesia – meditazione convergente alla viscerale richiesta sul nucleo ossimorico amore- dolore che sta alle radici della condizione umana.

Un ansare potente e a tratti disarmonico, sempre accompagnato da un sotterraneo mormorio interiore leopardiano, che cerca di attuare l’impossibile innesto tra il respiro individuale del poeta e quello dissonante e fragoroso del suo tempo.

Non c’è in Ricci un paesaggio, una risonanza intima, che non susciti, oltre l’emozione, una riflessione esistenziale sul destino che ci è stato assegnato, fatto di simulazioni, di angosce,   di sopravvivenze, ma anche di voglia di vita vera. Ricci attraversa tutti gli studi esistenziali alla ricerca della “vita vera”. Con i suoi versi sembra dirci che il vero sta nella fantasia naturale per cui la realtà non è altro che uno schermo, la tavola pitagorica della cosciente disperata condizione umana sospesa come a una clessidra. E la poesia è fatta con le cose effimere di questo mondo; ma nel suo continuo consumo ricorrente e risorgente, essa approda a una nozione di durata che diviene una visione laica in chiave divina della vita del singolo e dell’intero cosmo.

La lingua poetica è composita: la sintassi talora impressionistica e iterativa tende a disarticolarsi in pungenti scosse alogiche, talora invece parzialmente narrativa rimane fedele all’accezione greco-latina della parola di classica compostezza.

E in tal senso la poesia di Alessandro Ricci è anche una metafora della bellezza, una finestra sull’invisibile che ha la forma dell’armonia e della proporzione, è la concezione greca del bello.

La struttura equilibrata, ma a tratti volutamente dissonante, ‘dodecafonica’, la musicalità intensa e la ricchezza figurale del testo, il ricorso a sapienti e misurati arcaismi si armonizzano in effetti in un tutt’uno in cui ciascuna parte congiura alla bellezza di tutte le altre.

Aneliti di libertà, sogni risvegliati, ricordi senza tempo di affetti, di amici (cito in proposito la bellissima poesia “A Paolo Bardelli”, pg. 106), di luoghi o di cose, colorano la poetica del viaggio che specchia le itineranti avventure di uno spirito che non si arrende.

È sempre solitario il peregrinare, destino di molti, ma riflesso di ognuno che nel segreto incontro, ripete ciò che da sempre, nell’archetipo di Odisseo, è il cercare, il cercarsi.

Le soste commuovono, quietano, riparano lo stremo del movimento, schiudono sapori di contemplazione e di ristoro.

Ma non bloccano l’andare.

E corre il tempo, si rinnovano gli spazi, si trasforma la memoria che con la penna traduce gli affetti, la rabbia, il dolore in canto e i silenzi si fanno voci, voci di dentro.

Rivelativo nella poesia di Ricci è il controcanto a tutto ciò. Vedi quell’autentica controfigura che è la morte. Cui par di dover attribuire un tratto di demonicità nel senso più squisitamente pavesiano. L’antifrasi perfetta. Anzi speculare, verrebbe da dire. E se la vita, se pur nella sua drammaticità, lascia dietro di sé un’ ombra di nostalgia, al contrario la morte non suscita altro che nulla. Che cosa mai potrebbe riflettere la morte se non l’impossibilità di riflettere alcunché ( e quindi l’impossibilità, davvero demonica, di liberare l’io da se stesso, dalla propria autoriflessa prigionia, dalla propria condizione di totale provvisorietà).

Lo stile però non si chiude mai su se stesso: sempre esso è uno strumento della espressione delle emozioni o dell’osservazione minuta della realtà. Lo stile è come la lente d’ingrandimento, come il microscopio, come la mano che disegna un nibbio che si estasia in lentissime ruote lassù […], un caffè, la sigaretta, o una presenza umana.

Lo stile serve per invocare una presenza potente – quelle presenze reali alluse da Steiner, e per testimoniare di ciò che si è perduto: per raccontare il tangibile e il solido e l’effimero e il lontano, perché il paradosso per cui ciò che è perduto ed è già scivolato nell’inesistenza continui tuttavia a restare con noi. Da una poesia all’altra, quasi da una strofa all’altra, si passa dal vivere all’assenza che morde tutto ciò che sembrava più fermo. Ma anche passato e futuro, entrambi potenti, entrambi incarnati nella doppia condizione di colui che è figlio e padre nello stesso tempo. Nella poesia “La sagoma del quadrato” che chiude la raccolta, il padre-figlio delle generazioni passate, è il vincolo con patrie perdute e con origini che né la nostalgia, né la memoria, né ciò che il tempo non ha ancora devastato, possono riabilitare, forse perché solo il nulla le ravviva, anche se dolcemente.

In conclusione incontrare un’opera poetica così ricca, una poesia che è la parola massimamente carica di senso, per citare Ezra Pound, ci scuote come trovare un cibo che non finisce mai, che sempre si rinnova e che non perde il sapore della primizia quando diventa abitudine.

***

da L’EDITTO FINALE

E poi l’editto finale.

 

E poi l’editto finale.

Qui, per fughe dolenti

alla marina metallica

giunti

- il mondo meno

il nostro,

meno

noi – , separati

flussi e ristagni, amore

e rinuncia, conoscenza

e oblio, un perdono

da un altro, puri

tronchi e relitti: cose;

stiamo in quel punto

vicino al tutto, vicino

al niente, dimenticati

dimenticando: sillabe

di parole, vani

granelli,

nell’alba ingenua

che non li aduna.

  1. 19

***

da CON LIEVI VARIAZIONI DI TONO

Madrigale pensile

Resta ancora un poco.

Il vizio

dell’espressione, il fiato sospeso

sui pozzi, il pugnale

della rovina, finiranno. Comincia

l’estate.

Su questa terrazza elevata

ci siamo guardati, a lungo,

negli occhi.

Il colore dei capelli

si mescola ai coppi rossi

dei tetti. E rossa

è la tua bocca.

Lascia cadere il vestito prima di sera.

Il basso canto di chioccia si dipana

perfettamente.

Lascia cadere il vestito prima di sera.

pg.34

Anticipo di stazione

Ti richiama quell’orlo

di tempo che già gli angoli

di Testaccio con una veste

arancio zitta e birbona.

Sull’agorà dove si ammassano

binari e colombi in quest’ora

flava di siesta.

La memoria

è il nume adiposo che scrocchi

alle musichette sbadate

del pranzo e ai randagi

pazienti fra le immondizie.

pg.39

***

da LA PERFEZIONE DEI RUOLI

L’explorator

 

Primo sulla collina di Sèffos,

vide l’altro versante pieno di Parti.

_ Quadrato stavolta ha sbagliato

di grosso, non era qui che dovevamo

passare. Ci faranno a pezzi prima

di sera. Noi, i Romani, i padroni

del mondo.

Si voltò a guardare la coorte,

la migliore della legione: silenziosa

e composta, s’avvicinava alla cima.

Non fischiò

il pericolo ai suoi come avrebbe

dovuto. Si distese a guardare

una nuvola lentamente fra i rami,

tanto era troppo tardi.

  1. 50

Apparve con promesse solenni

 

Apparve con promesse solenni

a una bifora di castello.

Stette lì, stette nel riquadro

finché una luce si accese

alle sue spalle.

Ne bruciava

il contorno, amavi le parole

ch’erano

state dette.

  1. 62

***

da LA CADUTA DEL SUONO

Il male sciocco

 

Piove.

Un passero.

Due passeri.

Malamente

sotto le rose stillanti.

Poi il vetro s’appanna

e non vedo più.

  1. 69

La felicità del fumo

 

La felicità del fumo

tra le colline, i cipressi

verdissimi nell’astuta

mattina, splendida

di gennaio, i tarocchi

di Nando, le sue

parole sulla memoria

dolce perché irrimediabile,

la forza della redenzione,

lo sguardo non invidioso

alla gioia dei piccoli,

alla serenità dei vecchi

gentilissimi sulle scale, questo

sentore d’Umbria in tutt’altre

regioni, prati, rivi,

greggi illuminati in parte: il sole

infatti cala dall’alto, e sotto

si muovono o stanno fermi

l’ombra e il dolore, da cui

si sale finché si può.

  1. 74

La caduta del suono

 

Il peso della cenere, la ragna

recisa, la caduta del suono.

Oppure l’aggirante al colmo

della pena alle tempie

inferno

di stelle massicce, e la salma

pugnalata del cuore: di quante

feroci plètore o minuzie

è incendiaria l’angoscia,

quanto

ne dura il fuoco.

Fino al fior di papavero

- il grido – rosso

e imponente che s’accampa

sul fondo luminoso

dell’azzurra follia.

Allora tocchi dell’eco

la leggerezza, dell’odio

l’amore, della morte

la piuma.

pg.78

 

***

da  IL VIAGGIO

Vacanze in Sicilia

 

Al logico bandolo

della matassa, fra i visi

irati della compagna e degli

amici dell’equipaggio, fra

i canapi degli ormeggi e la

gru cigolante e nera

sulla nave arrugginita

di Cipro, in questa cala,

inabissale dal modestissimo

fondo – melma, nafta

e limaglie nell’acqua che

sciaborda sulla murata – , qui,

porca Mazàra, dove

m’aspettavo la Tunisia – e

c’era, c’era – nel quartiere

arabo bianco e bianchissimo,

cristo rividi invece

esule di là dal faro il

mare ammaliato al largo,

perché semplicemente non resta

che lo spazio d’una giornata di sole,

innamorato

o indifferente, contro

la solitudine.

pg.87

 

 ***

da  COSÌ

E venne un silenzio

 

E venne un silenzio,

proprio là dove

già ce n’era uno,

abituale e vecchissimo, e

lo sovrastò completa-

mente: assoluto,

assolato,

ma d’un colore

di ghiaccio, di cera

chimica, perfetta,

assassina.

pg.112

La sagoma del quadrato

 

Quando la levità d’un’ idea

si fa così estrema,

e l’ultimissima linea,

esattamente uguale

alle altre, nasce come un figlio

di cui si è figli, o

si torna all’atto, all’attimo

del proprio concepimento,

e indietro tutta, fino

a sentire l’intero tempo

delle generazioni,

gli antichi morti e i futuri

viventi, allora

è finita,

anche se dolcemente.

Roma, il pomeriggio del 10 maggio 1999

pg.113

 


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