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"Rosso Floyd" di Michele Mari
Rosso Floyd, l’ultimo romanzo di Michele Mari, edito da Einaudi, è di sicuro un libro ostico, almeno per i lettori meno smaliziati. “Ostico” è in questo caso aggettivo da riferirsi esplicitamente e quasi esclusivamente all’architettura della narrazione, frammentata, divisa, sezionata fino ad una parcellizzazione quasi estrema. Ricordare il sottotitolo ci verrà qui incontro: Romanzo in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione.
Se la storia, infatti, com’è facile intendere, è (per dirla con intento di semplificazione) quella dei Pink Floyd, la vicenda della band inglese emerge dalla storia del ventesimo secolo come pazientemente raccontata, passo dopo passo, ma senza un’impalcatura narrativa vera e propria a sostenerla e, tuttavia, non per questo fragile. Quello che, a tratti pacatamente, e a momenti urlando, ci restituisce la parabola del gruppo, dall’esordio con The Piper at the Gates of Dawn (titolo, ricordiamolo con particolare attenzione, in questo caso, di un capitolo del libro di Kenneth Grahame, scrittore per ragazzi nato ad Edimburgo nel 1859, The Wind in the Willows), fino a The Final Cut, album seguito dall’abbandono di Waters, e ancora oltre, con A Momentary Lapse of Reason e The Division Bell, è un coro fatto da voci caratterizzate dalle più svariate sonorità. O, come viene, in maniera anzi piuttosto insistente, suggerito nel corso del romanzo, la sfilata, lunga e dolorosa, di una nutrita schiera di testimoni molto ben “informati sui fatti”: dai cosiddetti siamesi, vale a dire Pink Anderson e Floyd Council, i due bluesman dalla cui “fusione onomastica” derivò la denominazione definitiva del gruppo, immaginati come mostruose creature avvinghiate l’una all’altra, ai membri stessi della band, ad artisti come Alan Parsons (ingegnere acustico dei “Floyd” prima di fondare l’Alan Parsons Project) e Alan Parker, regista dell’opera-rock Pink Floyd The Wall, solo per citare alcuni tra i numerosissimi “personaggi”.
Si diceva in precedenza che Rosso Floyd è ostico, ora si dovrà renderne conto. Il romanzo di Mari rappresenta, ci sembra, un organismo letterario dalla forma atipica (almeno per il lettore medio italiano, si badi) ma con ingranaggi e meccanismi ben oliati e funzionanti; tuttavia è d’uopo segnalare, semplicemente, la leggera stanchezza sopraggiunta oltre i due terzi del volume, quando la gran parte dei “testimoni” di cui sopra ha ormai “deposto” più d’una volta, e bene è stata messa a fuoco la vicenda tragica (ma, in sé, quasi mitica) di Syd Barrett, il crazy diamond.
Ciò nonostante, l’interesse, da parte di Michele Mari, per le capacità proiettive e affabulatorie del linguaggio, viene efficacemente sostanziato nella seppur franta articolazione dell’opera e ne costituisce un aspetto sicuramente di ragguardevole positività. L’accumularsi dei frammenti di storie concorre a un mosaico che ha il pregio duplice, da un lato, per chi conosce la complessa vicenda dei Pink Floyd, di riviverla, almeno in parte, e dall’altro, per chi ne fosse all’oscuro, di scoprirla, nei suoi accenti più tragici e malinconici (soprattutto, come si accennava, in riferimento a Barrett). Naturalmente, non è esclusa una sana dose di finzione, in Rosso Floyd; finzione, però, sempre asservita alle realtà storiche, agli effetti, alle conseguenze, all’“accaduto”.
Mari, già assiduo frequentatore di temi come la memoria e il racconto del vissuto, oltre all’adolescenza (o addirittura l’infanzia) quali momenti topici da custodire in sé come in uno scrigno, ripropone qui, ancora una volta, lo stile composito, vivo anche nella sua produzione poetica, di cui Cento poesie d’amore a Ladyhawke può essere un ottimo esempio, e le frequenti virate al sovrannaturale che lo caratterizzano. Il risultato è sicuramente soddisfacente, e consigliabile.
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