I guai iniziarono con il collasso dell’Urss e la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina: fu allora che i russi crimeani per la prima volta espressero palesemente la loro volontà di staccarsi da Kiev e ritornare sotto la sovranità di Mosca, proclamando nel 1992 la Repubblica indipendente di Crimea. Dietro quella mossa era evidente il sostegno della Russia, anche se allora nessuno accusò Eltsin di voler minare l’integrità territoriale ucraina. L’indipendenza durò tuttavia poco: con un trattato tra la Russia e l’Ucraina, ratificato poi nel 1994, Mosca rinunciava a pretese sulla Penisola contesa, che a sua volta accettava di restare sotto la sovranità ucraina in cambio di ampie autonomie linguistiche e amministrative. Ma il fuoco, rimasto vivo sotto la cenere, divampò di nuovo lo scorso inverno: dopo il rovesciamento di Yanukovic e la minaccia di vedersi revocare le autonomie dal nuovo governo nazionalista, la Crimea s’incamminò ancora una volta (e definitivamente) verso la Russia. Il 21 marzo 2014 la Repubblica Autonoma di Crimea, sotto sovranità ucraina, diventava il Distretto Federale di Crimea, sotto sovranità russa.
A conferma della legittimità dell’annessione, Mosca citava un controverso precedente, ovvero quello del Kosovo, che nel 2008 si era proclamato indipendente dalla Serbia. Secondo la Russia, se era stata data legittimità internazionale alla mossa di Pristina, lo stesso valeva per quella di Simferopoli: e visto che il diritto internazionale si regge soprattutto su fonti consuetudinarie, anche il referendum indipendentista crimeano aveva piena legittimità.
Qui entriamo in un terreno minato, per due motivi. Il primo, è che il Kosovo, a differenza della Crimea, non è andato poi a confluire in un altro Stato, anche se questa ipotesi non è del tutto da escludere per il futuro, considerato il mai sopito progetto della Grande Albania ancora vivo a Tirana. Il secondo è che se da un lato la secessione del Kosovo dalla Serbia non ha violato il diritto internazionale, dall’altro non significa certo che sia legittima. E’ la stessa Corte Internazionale di Giustizia ad avere questa opinione nella sentenza del luglio 2010 con cui ha respinto il ricorso presentato da Belgrado: siccome il diritto internazionale non contiene alcuna norma che vieta espressamente la secessione, quella kosovara non ha perciò violato nulla. Quindi è da ritenersi “non illegittima”, che però non vuol dire che sia legittima.
Dunque, visto che il diritto internazionale generale non vieta la secessione e il conseguente inglobamento in un altro Stato, anche per la Crimea vale lo stesso discorso? Non proprio, perchè in questo caso le norme di diritto internazionale violate esistevano eccome: erano quelle derivanti dal Trattato russo-ucraino del 1994, descritto sopra. L’annessione della Crimea non è stata mai riconosciuta dagli Usa e dall’Ue perchè avvenuta in violazione di quell’accordo con il quale, appunto, la Russia si era impegnata al rispetto dei confini dell’Ucraina.
Ma Mosca e Simferopoli hanno sempre replicato che il Trattato del 1994 è stato invalidato innanzitutto da Kiev, con la sua decisone di rivedere le autonomie concesse ai territori russofoni, alla base stessa dell’accordo di 20 anni prima: ritenutasi per questo svincolata da qualsiasi obbligo verso l’Ucraina, la Crimea ha scelto con un plebiscito di tornare con la Russia, che l’ha accolta a braccia aperte, visto anche l’enorme valore strategico che ha la penisola sul Mar Nero per le Forze navali russe.
Insomma, a distanza di un anno è ancora molto difficile stabilire se l’annessione russa della Crimea abbia rappresentato una violazione del diritto internazionale oppure se si sia trattato di una forma di applicazione del diritto dei russi di Crimea all’autodeterminazione, dinanzi alla minaccia di una politica discriminatoria nei loro confronti.