di Matteo Zola
Il 3 dicembre scorso si è votato in Russia per il rinnovo del Parlamento. Doveva essere una passeggiata per Vladimir Putin, candidato premier di Russia Unita, ma la Russia è uscita dalle urne meno unita di quanto ci si attendesse. All’indomani del voto già i primi exit poll vedevano il partito di Putin crollare dal 60% al 47% dei consensi. I primi risultati ufficiali attestavano Russia Unita al 50,1%, appena il necessario per avere la maggioranza assoluta alla Duma. Un risultato poi aggiustato al 49,32%, una correzione al ribasso che è suonata come l’ammissione di una sconfitta. Approfittando dell’apparente momento di debolezza le opposizioni hanno attaccato Putin e alcuni movimenti democratici hanno portato in piazza circa centomila persone il 10 e il 24 dicembre scorso.
Occorre però guardare dietro le apparenze. I principali partiti di opposizione sono parte integrante del putinismo cioè di quel sistema che va sotto il nome di “democrazia sovrana” ideato da Vladislav Surkov, uno degli uomini più potenti del Cremlino. Surkov è la mente dell’ingegneria politica russa: un sistema di democrazia controllata, un simulacro di libertà individuale stretto in lacci autoritari, dove le libere elezioni non sono altro che un plebiscito al leader.
E’ il Cremlino, in sostanza, che decide contro cui concorrere. L’esistenza di un’opposizione legittima la vittoria – scontata – del candidato prescelto (cioè Putin) mentre i leader avversari vengono ricompensati con incarichi istituzionali di alto livello. Il Partito Comunista ha ottenuto alle scorse elezioni il 19,49%, Russia Giusta il 12,85% e i Liberaldemocratici l’11,95%. Il leader di Russia Giusta, Serghei Mironov, era presidente uscente del Senato mentre il capo dei Libdem, Vladimir Zhirinovsj, era il vice alla Duma.
Come leggere dunque le recenti manifestazioni di piazza? In primo luogo come espressione esterna di un attacco interno a Vladimir Putin. Poco prima delle elezioni infatti Serghei Mironov è stato rimosso dalla sua carica di presidente del Senato per aver apertamente criticato il tandem Medvedev-Putin. Stessa sorte è toccata al ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, che al G20 tenutosi a Washington in settembre ha espresso divergenze di vedute con il Cremlino.
Queste – e altre – prese di posizione sono il risultato dell’annuncio, il 23 settembre 2011, dello scambio di ruoli tra Vladimir e Dimitri. Il presidente russo Medvedev ha infatti “rinunciato” alla carica “chiedendo” a Putin di ritornare alla poltrona di Presidente dal 2012. In questo modo Putin potrà ricandidarsi e governare la Russia fino al 2024. Una prospettiva che ai tycoon vicini a Russia Unita non piace. Putin è l’espressione di una Russia muscolare che si poggia sull’esercito e sull’Fsb (l’ex Kgb) mentre Medvedev è l’uomo degli affaristi che vedono di buon occhio un sistema maggiormente liberale.
Come ricordato da Serena Giusti, in Russia’s modernising alliance with the Eu (Ispi studies, settembre 2011) dopo gli anni di El’cin, il ritorno a una Russia quale polo di potere nel sistema internazionale è stato possibile grazie a una crescita economica– di molto superiore a quella europea ed americana – fondata sui dogmi del mercato, del liberismo, della concorrenza. Si è così formata una una middle class sconosciuta in Russia negli anni Novanta che sotto l’imperio di Vladimir Vladimorovic è cresciuta raggiungendo oggi nelle aree metropolitane occidentali (Mosca e Pietroburgo in testa) punte del 30% e destinate a salire ancora.
Questa trasformazione nella società (e quindi nelle aspettative dell’elettorato) ha causato un malcontento che si è tradotto in una debacle elettorale per Putin “l’eterno”. A essere messo in discussione, però, non è il sistema di potere ma ‘solo’ l’uomo che, a conti fatti, l’ha creato. Un putinismo senza Putin sarebbe l’alternativa richiesta tanto dai magnati dell’industria e dell’energia quanto dalla classe media urbana.
Arriviamo così alle manifestazioni che hanno portato in piazza, a Mosca, Pietroburgo, e altre grandi città russe (russe, si badi, niente che vada al di là degli Urali) centinaia di migliaia di persone. Manifestazioni possibili proprio grazie alla debolezza “interna” di Putin, attaccato politicamente su più fronti. Le manifestazioni del 10 e del 24 dicembre hanno portato sulla piazza Rossa di Mosca più di centomila manifestanti. Non una grande cifra, in verità, per una città di sette milioni di abitanti. Giovanni Bensi, corrispondente a Mosca per Avvenire, spiega come sia «sempre difficile portare i russi in piazza, se si riescono a mobilitare cento persone in Russia è già un grande successo. Ciò si spiega con una sopravvivenza della mentalità sovietica. Nell’Urss di dimostrazioni se ne facevano molte ma si trattava sempre di dimostrazioni di regime. La gente ha sviluppato una sorta di idiosincrasia verso le manifestazioni, dietro le quali viene sempre visto lo zampino del potere e della cui inutilità sono tutti convinti».
Le recenti manifestazioni sono quindi il segno di qualcosa che sta cambiando: «dice un proverbio russo “i pulcini si contano in autunno”: tireremo le somme far un anno» conclude Bensi. Appare comunque difficile immaginare una svolta realmente democratica in Russia e anche Vladimir Putin sembra aver superato le difficoltà di questi mesi. Le prossime elezioni presidenziali, a marzo, ci daranno maggiori indicazioni.
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leggi anche i focus del Dipartimento di diritto pubblico dell’Università di Milano, a cura della prof.ssa Angela Di Gregorio