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S-consiglio: Acciaio di Silvia Avallone

Creato il 07 settembre 2012 da Povna @povna

Come ha chiosato LGO venerdì scorso, anche gli s-consigli possono essere preziosi, al pari dei consigli. Ed è per questo che la ‘povna – impegnata nella settimana di Neverland – decide di inaugurare un sotto-tag della sua partecipazione recensoria da Homemademamma, proponendo – quando le sembra che ne valga la pena – la sua dose di s-consigli, per evitare ad altri quelle che per lei sono state sonore delusioni.
E’ il caso di un romanzo che è tuttora best seller (nonché aspirante Strega un paio di anni fa – e per fortuna non ha vinto); e che la ‘povna propone, quasi in absentia (nel senso che fino a quando Neverland non riuscirà a interagire troppo coi commenti), per questo venerdì del libro.

I vistosissimi anacronismi, e la mancanza di una ricerca più approfondita rispetto al campo dei ricordi e delle tesi, bastano di per sé a fare avere sul libro un giudizio quanto meno assai perplesso. Ma andiamo con ordine. Silvia Avallone ricrea una Piombino che è un misto di conoscenza (diretta, ma non troppo) e di (ovvia) letteratura. C’è il Fenoglio della Paga del sabato, nelle descrizioni di certe famiglie (e anche di certi personaggi: Alessio è un Ettore degli anni 2000 – con la differenza che la sua semi-delinquenza non è spiegata dal reducismo, come nel caso di Fenoglio, e dunque sembra sempre un po’ gratuita e appiccicata lì). C’è Cassola, ovviamente (e come potrebbe non esserci?) che fa da nume tutelare letterario a chiunque voglia scrivere di quelle zone e tematiche andando a caccia di realismo (e poi Anna, nome parlante quanti altri mai). Già basterebbe questo per capire, in controluce, alcuni destini dei personaggi, che seguono il filo di una intertestualità implicita, che (il dubbio al lettore viene spesso) non è tanto gioco autoriale quanto più inconsapevole memoria letteraria. In mezzo, a tratti, specie nel rapporto di Anna e Francesca, la Avallone prova a metterci un po’ di giovane ombra, c’est à dire il grande tema delle avventure e della scoperta dell’altro e del mondo che, per esempio, in America è stato raccontato così bene da Mark Twain. Il contrasto, va detto, è stridente, e le sequenze dei ‘posti magici’ (che fanno tanto Barren di Derry) vissuti da “Anna e France” non si integrano per niente, non solo (come trama vorrebbe) con la loro vita ufficiale, ma nemmeno con la narrazione. A questo si aggiunge il cinema – con il Muccino (soprattutto) di Ricordati di me che ha fatto danni. E una (scontatissima) spruzzata di Virzì. E abbiamo compiuto il cerchio del ‘romanzo socio-giovanile realistico di denuncia’ in salsa italiana.
Questo, per l’ambiente geografico. Se poi dallo spazio passiamo al tempo, la questione si complica ulteriormente, perché Acciaio – ambientato nel 2001, a cavallo dell’11 settembre (ovviamente evocato, in maniera assolutamente gratuita – e che palle) e del passaggio Lira/Euro – rivela tutta una serie di tratti che ne denunciano la scrittura nel 2009. I più vistosi (a livello dell’orologio da polso nei film d’epoca): il lettore di Mp3 (di Mp3?!) dato come ovvio, i cellulari che fanno foto e video a ottima definizione, come niente (e che poi si mettono su youtube, fondato nel febbraio del 2005), Scamarcio (che iniziò ad avere successo nel 2003, con la partecipazione alla Meglio gioventù) evocato da Anna come il suo idolo da copertina di Cioè. E ancora: l’obbligo scolastico a 16 anni, introdotto nel 2007, e qui dato come già in corso. Sono cose pesanti, che il lettore è costretto a notare per la rilevanza posticcia che dovrebbero avere nell’intreccio. E che se da una parte tradiscono anche (ahi ahi, RCS) la mancanza di un buon editor, dall’altra allontanano pericolosamente dal realismo che si voleva creare.
A questo, si aggiungono una trama sdrucita, con salti logici, troppa carne al fuoco e insieme troppa letteratura di riferimento, una lingua faticosa (che oscilla tra un italiano standard e un’occasionale, e a quel punto incomprensibile, cedimento a espressioni colloquiali socio-regionalistiche) e una gestione raccapricciante del punto di vista. La scelta della focalizzazione mobile, infatti, presuppone una capacità di gestione (e di immedesimazione) nei personaggi non indifferente – ed è sicuramente assente da un romanzo in cui il fuoco dello sguardo sembra andare un po’ a casaccio, dall’uno all’altro, per poi tornare a un narratore (semi)onnisciente che non sa più che cosa fare.
Tutto da rifare, o quasi, dunque, per la giovane esordiente, anche se le intenzioni erano buonissime. A salvare allora dalla bocciatura senza appello sono (forse) alcune intuizioni qua e là, sepolte nella (troppa) limatura di ferro. Troppo poche per costruire un buon romanzo. Sufficienti (forse) per rimboccarsi le maniche, studiare un po’ di più i ferri del mestiere e i rudimenti tecnici. E ricominciare.


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