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"Sabato, addio" di Marco Archetti

Creato il 08 settembre 2011 da Sulromanzo

«Sabato sera, ottobre di due anni fa, seduti in un bar – ecco quando questa brutta vicenda è cominciata. Poi penso: potrei anche piantarla, smettere qui, a cosa serve spiegare? All’inizio di questa storia c’è una donna. Alla fine, due. Nessuna delle due è stata per me».

Inizia con un flashback l’ultimo romanzo di Marco Archetti, dal titolo raffinato Sabato, addio (Feltrinelli, pagg. 146) e fin da subito attira il lettore con un tu iniziale, – solo in seguito si scoprirà il vero destinatario della seconda persona – ne cerca la complicità: «Tra poco verranno a prendermi e vorranno spiegazioni. Vuoi sapere com’è andata? Vuoi saperlo prima di loro?». Emerge l’urgenza di confessare qualcosa e la voce narrante in prima persona rende tutto più reale; la suspense della prima pagina accompagna fino all’ultima riga un racconto che è narrazione pura e scorre velocissimo.

Una storia di vendetta e di solitudine, di amicizia e di amore, su cui aleggiano i versi dell’Antologia di Spoon River, fonte di ispirazione per Archetti.

Scopriamo subito che quel sabato sera si era consumato il “tradimento” fra due amici storici, Gigi e Filippo, due inetti che sarebbero stati cari a Pirandello, la cui missione era “ingannare il sabato”, perché non avevano né amici né donne con cui divertirsi. Dopo aver condiviso i sabato sera per quindici anni, Gigi confessa all’amico che ha conosciuto una ragazza, Benedetta, e non può più uscire con lui. «Mi sentivo come uno lasciato da una donna», – afferma Filippo – già orfano di madre dall’età di sette anni, che da quel momento sperimenta la solitudine più dolorosa, unico svago il lavoro, in un supermercato.

Fondamentale l’ambientazione, il quartiere popolare del Carmine, a Brescia: «Chi nasce qui è predestinato, non è come nascere da un’altra parte, ti porti dietro tutto […] è la prima volta che me lo chiedo, ma se la mia storia non fosse cominciata in questo posto, sarebbe finita nello stesso modo?». Strade e case meravigliosamente descritte attraverso i colori: «il buio è denso, salmastro, e cambia colore: giallo indiano sotto gli elmetti dei lampioni, verde limone contro le vetrine delle camicerie a buon mercato, azzurro lunare sul rettifilo di via Battaglie; tinge di ruggine vicolo delle Ventole, impregna di antracite via Scalvini, ristagna come un livido in vicolo Borgondio».

Alla provincia bresciana fa da contraltare un non luogo per eccellenza, l’aeroporto, con la sua “vuotezza frigorifera”: «maledetto aeroporto, gabbia inaudita, abnorme parodia di una voliera». Ma l’aeroporto è il mezzo fondamentale che porta a Santo Domingo, «il paradiso niente sabato e tutta domenica» dove Filippo incontra Marlén, una ballerina bellissima come un quadro di Gauguin. Dopo sei mesi e ingorghi burocratici, fa venire Marlén in Italia e può sposarla. Finalmente anche lui ha una donna.

È questa la felicità? Un finissimo narratore e profondo conoscitore dell’animo umano, Arthur Schnitzler, agli inizi del secolo scorso, aveva scritto che «il matrimonio è la scuola della solitudine. Ma in essa non s’impara abbastanza».

Archetti ci regala una lucida riflessione sulla condizione dell’uomo e sulla sua precaria felicità, che già il greco Erodoto aveva spiegato con l’invidia degli dei (ftónos tón teón): «Ogni giorno, ogni ora. Mentre ridiamo, mentre crediamo di essere felici, mentre stiamo pensando che meglio di così non potrebbe andare, perché non sentiamo mai quell’impercettibile scricchiolio sotto i piedi? Cosa succede, quando non succede niente?»

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