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Sacco e Vanzetti, la lezione per il futuro

Creato il 23 agosto 2011 da Albertocapece

Sacco e Vanzetti, la lezione per il futuroAnna Lombroso per il Simplicissimus

Il 23 agosto 1927, alle ore 0,19 veniva giustiziato sulla sedia elettrica Nicola Sacco. Alle 0,26 toccava a Bartolomeo Vanzetti. Il loro caso si trascinava dal 1920: l’accusa era di omicidio. I due immigrati erano imputati di avere ucciso due uomini durante una rapina in un calzaturificio. Il carattere puramente indiziario delle prove addotte contro i due attivisti anarchici, attirò sulla corte accuse di “faziosità dettata da motivi razziali e politici”. La richiesta di riaprire il caso venne sistematicamente rifiutata, anche quando un altro detenuto, condannato a morte, confessò di aver preso parte alla rapina.

Il destino dei due anarchici italiani, capri espiatori di un’ondata repressiva lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la «sovversione», non solo smosse le coscienze degli uomini dell’epoca, ma come uno spettro continuò ad agitare l’America per decenni.Solo nell’agosto 1977 il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo, riabilitando completamente la memoria di Sacco e Vanzetti, due vittime diventate un simbolo.

Bartolomeo Vanzetti rivolgendosi alla giuria che aveva appena pronunciato la sentenza di morte aveva detto: «Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Bartolomeo Vanzetti, «Tumlin» per gli amici, nacque nel 1888 a Villafalletto nel Cuneese figlio di un agricoltore. A vent’anni entra in contatto con le idee socialiste e, dopo la morte della madre Giovanna, decide di partire per l’America. Stabilitosi nel Massachusets, milita in gruppi anarchici e nel 1917, per sfuggire all’arruolamento, si trasferisce in Messico. È qui che stringe amicizia con Nicola Sacco, pugliese, classe 1891. Da allora, Nick e Bart diventano inseparabili e frequentano i circoli anarchici. Il 5 maggio 1920 Nick e Bart, come li chiamavano in America, vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. E per accreditare il teorema che si trattava di pericolosi sovversivi, vengono accusati dei due omicidi.

Tra il 1901 e il 1923 emigrarono in America 4.711.000 italiani. Di questi 3.374.000 provenivano dal Mezzogiorno. Si ammassavano nel bastimenti partendo per terre assai lontane: secondo le indagini condotte dalla Direzione della statistica sulle cause dell’emigrazione si distinguevano in “partenti per la miseria”, prevalenti tra gli emigrati del Sud e quelli “per desiderio di miglior fortuna” , quelli delle regioni settentrionali. La stessa Direzione riporta il ritornello di una canzone cantata dai suonatori ambulanti di allora: “ con l’arpa al collo tutto il mondo è il mio paese”e la frase di un proprietario terriero: “l’emigrazione è nata come un bisogno, è cresciuta come un desiderio, è diventata un morbo infettivo”.

Le preoccupazioni di padroni non erano sufficienti a contrastare la spinta. L’emigrazione comportava terribili disagi, il distacco, l’incognita dei rischi, i pericoli di una condizione indifesa. Nell’opinione pubblica il bracciante affamato, l’operaio macilento per una condizione lavorativa disumana, diventano gli eroi di quella che fu definita “una nuova e pacifica rivoluzione sociale”, da spettri invisibili si trasformano in artefici: “andavano in America a creare quei capitali che sono pur necessari per fecondare la terra del loro paese”. Bart era un giovanotto ardito e ardente del Nord, uno di quelli che partivano per una vita migliore. Nick era un ragazzo del Sud, spinto dal bisogno. Erano “speciali” animati da idee forti e indomabili, sapevano leggere e scrivere. Oggi da noi, in questo Paese incline all’oblio e a una accidiosa smemoratezza, sarebbero probabilmente stranieri in patria, irregolari, clandestini come si sente molta gente più adirata che indignata. E ce ne vorrebbero tanto così, perché ci sono stati dei Nick e Bart tra i “terun” che seguivano i flussi delle migrazioni interne. Ce ne sono tra i giovanotti che arrivano a Lampedusa se ci arrivano. E ce ne saranno, anche di italiani nei futuri esodi della disperazione di questo secolo che minaccia di essere inquieto, breve, crudele.

Nuovi invasori che hanno imparato che i barbari siamo noi, come sapevano bene loro, che con la loro morte ha svelato l’educata, puritana, asettica barbarie della nazione culla di una democrazia vigente solo per i discendenti dei padri pellegrini, per chi si adeguava a regole anche inique, a chi si sottometteva a essere di serie B, salvo impegnarsi in una competizione senza legge e senza risparmio di colpi.

Fino a qualche tempo fa anche io mi sentivo di fare come certi intellettuali illuminati, superare quella condizione morale che va dall’indifferenza al fastidio, dall’umanitarismo spettacolare o consolatorio, anche di noi stessi, per metterci nei panni di chi mette in gioco vita e morte, di fronte al quale ci sentiamo noi, i progrediti, i privilegiati, gli opulenti, meschini, pavidi, inetti. Si è un buon esercizio di compassione, quella di Schopenhauer, dividere passioni senti e dolori di chi ci sta vicino. Ecco perché se ci sta vicino è più facile, che altrimenti lo vediamo magari morire in tv, in un silenzio interrotto dal suono delicato del cubetto di ghiaccio nel bicchiere di scotch. Un esercizio utile all’umanità, ma ora non so quanto utile per la civiltà che deve fare il passo avanti, o indietro, di guardare ai diritti degli altri e di quelli che verranno dopo di noi, a cominciare dai nostri che abbiamo lasciato manomettere, erodere, impoverire in una miseria morale senza speranza e senza futuro.

È difficile pensare che questa nostra società così mediocre nutra e allevi qualcuno che veda la sua morte come un contributo necessario alla tolleranza e alla libertà. E per carità non dico che abbiamo bisogno di eroismo e nobiltà, semmai di persone per bene, intente all’interesse generale, a fare il proprio dovere con competenza, a vivere secondo fecondo senso di responsabilità. Viviamo in un teatro propizio a metterci alla prova, dove lavoro e immigrazione segnano i confini della civiltà e della sopraffazione, della democrazia e della illegalità. E nel quale diventa irregolare come chi arriva senza permesso chi vuole prendersi il permesso di lavorare con dignità e rispetto. Come avrebbero voluto quei due ragazzi italiani lontani da questo bel paese così amaro.


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