E venne il giorno dell’Akagera. L’ultima volta c’ero stato con una Volkswagen ma un 4 x 4 fa più Camel Trophy, così ho pensato di farmi prestare quello di mia cognata D. “Cara cognatina, potresti prestarmi il Mitsubishi per andare all’Akagera?”, ho domandato con il mio tono più musicale. “Ma certo, caro, aspettavo soltanto che me lo chiedessi”, ha risposto lei. “Oh, grazie, ho sempre pensato che sei la miglior cognatina del mondo.” Per la verità ho sempre pensato che è la peggiore. “Di niente, caro, è un piacere. Quando partiamo?” Per poco non mi sono strozzato con la birra. “Eh?”, ho sputacchiato. “Ma sì, ho sempre desiderato visitare l’Akagera.” Per un momento ho pensato di noleggiare un Range Rover, poi mi è balenata in mente la visione di alcuni leoni intenti a spolpare delle ossa. “Domani. Sii pronta alle sette.”
Il giorno seguente alle sette, in rotta per l’Akagera. “Che bello, sembriamo un racconto di Hemingway”, osservo per fare conversazione. “Eh?”, chiede D, guardandomi con aria bovina. “Quello del Kilimanjaro”, la informa mia moglie. “Ah.” Finalmente arriviamo a Gabiro. L’ultima volta era gestito da una coppia svizzera e sembrava una casa belga, adesso è gestito da e sembra un lodge kenyano. Passiamo la notte nel lodge e il giorno dopo in rotta per il parco. Per la modica somma di 150 dollari dobbiamo imbarcare un militare che ci farà da guida. “Per fortuna non ha piovuto”, osservo, sapendo per esperienza come ci si possa impantanare. “Niente paura”, dice Grégoire, il nostro autista. “Questo Mitsubishi è un 4 x 4. Significa che, se le ruote davanti si impantanano, quelle di dietro lo tirano fuori.” Mi guarda con aria furbesca. “Oppure, se si impantanano quelle di dietro, lo tirano fuori quelle davanti.” Buono a sapersi. All’ingresso del parco c’è un cartello: “Non scendete dalla macchina! La settimana scorsa un belga è sceso per fotografare i leoni ed è stato divorato.” Non so perché, ma sbircio mia cognata. Andiamo nel parco e finalmente vediamo i leoni. “Guarda, sono dei gatti. Perché non scendi a fare una piccola foto?”, chiedo a D. “Perché non scendi tu?”, chiede lei. “E’ proibito scendere”, dichiara il militare, mettendo fine alla discussione. Dopo qualche chilometro la macchina s’impantana nell’acqua del fiume Akagera che ha avuto la pessima idea di straripare invece di starsene buona nel suo letto. Le ruote girano a vuoto. “Ma non dovrebbero tirarci fuori?”, chiedo all’autista. “Sono impantanate tutt’e 4”, geme lui. “Bisogna infilarci sotto delle pietre.” Il problema è che 30 metri più avanti c’è una mandria di bufali. “Scendi a mettere le pietre”, dico a Donatilla, pensando che tutto sommato anche i bufali possono servire. “Perché non scendi tu?”, chiede lei. “Scendi a mettere le pietre”, dico al militare. “Mi pagano per fare la guida, non per mettere le pietre”, ribatte lui. Sbircio l’autista, ma naturalmente è pagato per fare l’autista. “Scendo io”, dichiara mia moglie, ma le poso le mano sul braccio.” No, scendo io.”
Come apro la portiera, il bufalo di guardia abbassa la testa e comincia a raspare il terreno, così la richiudo precipitosamente. “Aspettiamo che se ne vadano”, dico. Dopo mezz’ora sono ancora lì. “Ma perché quelle vacche non vanno a pascolare un po’ più in là?” sbuffo. “Sei un codardo”, osserva Donatilla, e tutti mi guardano come se lo fossi. Così apro di nuovo la portiera e scendo. Mi sento come Francis Lacombe, il loser di Hemingway che si fa calpestare da un bufalo infuriato per provare a sua moglie che è coraggioso. Il bufalo mi guarda storto. Corro a prendere le pietre e le caccio sotto le ruote a tempo di record, poi salto in macchina. Stavolta il loser ha vinto.
Dragor