E’ morto Salvatore Crisafulli a 47 anni nella sua casa di Catania, circondato dai suoi familiari. In seguito ad un incidente nel 2003 era in coma vegetativo permanente, dal quale si era risvegliato nel 2005 mostrando al mondo che la vita non ha senso solo finché si è sani e in grado di autogestirsi, come invece vorrebbero farci credere i media.
E’ rimasto paralizzato ma attraverso l’uso degli occhi ha cominciato a scrivere comunicando al mondo le sue emozioni e la sua indomita voglia di vivere, addirittura ne è nato un libro intitolato “Con gli occhi sbarrati” (Airone Editrice 2006). Assieme al fratello Pietro ha fondato l’associazione Sicilia Risvegli per aiutare persone in situazioni post-comatose. E’ stato anche una testimonianza per la medicina perché ha spiegato che durante lo stato vegetativo sentiva e capiva tutto, ma non riusciva ad esprimere le sue intenzioni.
La sua vita è stata una lunga battaglia legale e mediatica per ottenere l’assistenza adeguata. Addirittura, nel 2009, gli venne sospesa la pensione perché dichiarato un “falso invalido”. Il 12 febbraio scorso aveva fatto un ricorso urgente al tribunale di Catania per essere sottoposto a terapie con le cellule staminali e in questi giorni attendeva la visita di un medico indicato dal tribunale. Ma le sue condizioni si sono aggravate: ieri ha perso coscienza e oggi è spirato. Nessun aiuto dalla politica, una cui larga parte ha preferito e preferisce ossessionarsi con la morte, con il suicidio assistito, l’eutanasia e i registri del testamento biologico. Come ha spiegato Mario Melazzini, medico di successo e malato di SLA (sclerosi laterale amiotrofica): «ci sono cento persone che, in nome di altre migliaia, invocano il diritto a essere riconosciute invalide, a essere ammesse alle sperimentazioni, a essere prese in carico, ma nessuno se ne accorge. Poi c’è uno che evoca la morte come un diritto e non si parla d’altro».
Salvatore Crisafulli ha anche scritto, con le palpebre attraverso un computer, una commovente riflessione dell’eutanasia: «Dal mio letto di quasi resuscitato alla vita cerco anch’io di dare un piccolo contributo al dibattito sull’eutanasia. Il mio è il pensiero semplice di chi ha sperimentato indicibili sofferenze fisiche e psicologiche, di chi è arrivato a sfiorare il baratro oltre la vita, ma ancora vivo, di chi è stato lungamente giudicato dalla scienza di mezza Europa un vegetale senza possibile ritorno tra gli uomini e invece sentiva irresistibile il desiderio di comunicare a tutti la propria voglia di vivere. Durante quegli interminabili anni di prigionia nel mio corpo intubato e senza nervi, ero io il muto o eravate voi, uomini troppo sapienti e sani, i sordi? Ringrazio i miei cari che, soli contro tutti, non si sono mai stancati di tenere accesa la fiammella della comunicazione con questo mio corpo martoriato e con questo mio cuore affranto, ma soprattutto con questa mia anima rimasta leggera, intatta e vitale come me la diede Iddio. Ringrazio chi, anche durante la mia “vita vegetale”, mi parlava come uomo, mi confortava come amico, mi amava come figlio, come fratello, come padre».
«Ma cos’è l’eutanasia, questa morte brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana solidarietà se coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità? E invece tu, caro Pietro, sfidavi la scienza e la statistica dei grandi numeri e ti svenavi nel girovagare con me in camper per ospedali e ambulatori lontani. E urlavi in TV minacce e improperi contro la generale indifferenza per il mio stato di abbandono. E mi sussurravi con dolcezza di mamma la ninna-nanna di “Caro fratello mio”, per me composta, suonata, cantata e implorata come straziante grido d’amore, ma non d’addio. Vi ricordate di quel piccolo neonato anancefalico di Torino, fatto nascere per dare inutilmente e anzitempo gli organi e poi morire? Vi ricordate che dalla sua fredda culla d’ospedale un giorno strinse il dito della sua mamma, mentre i medici quasi sprezzanti spacciavano quel gesto affettuoso per un riflesso meccanico, da avvizzita foglia d’insalata? Ebbene, mamma, quando mi coprivi di baci e di preghiere, anch’io avrei voluto stringerti quella mano, rugosa e tremante, ma non ce la facevo a muovermi né a parlare, mi limitavo a regalarti lacrime anziché suoni. Erano lacrime disprezzate da celebri rianimatori e neurologi, grandi “esperti” di qualità della vita, ma era l’unico modo possibile di balbettare come un neonato il mio più autentico inno all’esistenza avuta in dono da te e da Lui. Sì, la vita, quel dono originale, irripetibile e divino che non basta la legge o un camice bianco a togliercela, addirittura, chissà come, a fin di bene, con empietà travestita da finta dolcezza».
E in conclusione un appello a tutti: «Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato, anche da intubato, anche da febbricitante e piagato. Intorno a me, sul mio personale monte Calvario, è sempre riunita la mia piccola chiesa domestica composta da Mamma Angela, Marcello, Pietro, Santa, Francesca, Rita, Mariarita, Angela, Antonio, Rosalba, Jonathan, Agatino, Domenico, Marcellino: si trasfigurano ai miei occhi sbarrati nella Madonna, nella Maddalena, nella Veronica, in Sant’Agata in San Giovanni, nel Cireneo. Mi bastano loro per sentirmi sicuro che nessun centurione pagano oserà mai darmi la cicuta e la morte».