San Francesco di Paola
Che i siciliani abbiano avuto, da sempre e senza distinzione di fedine penali, un forte senso religioso della vita, è un fatto di dominio universale. Persino Cosa nostra usa le immagini sacre di santi protettori e di madonne varie per sancire le proprie affiliazioni. Si potrebbe redigere una cronologia di tutti i morti ammazzati o dei pregiudicati catturati, nelle cui tasche è stato trovato di tutto, quanto a devozione alle proprie entità sacre e ultraterrene. Veri e propri numi tutelari, pagani, tenuti nascosti in qualche angolo degli oggetti d’uso quotidiano. Una cultura secolare e diffusa.
Quando ammazzano Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo (26 giugno 1947), membro di primo piano delle squadre armate neofasciste al Sud, gli trovano addosso un libretto con, in copertina, un’immagine di San Francesco di Paola, un’altra metallica dello stesso santo, un portatessere con tre santini. Il picciotto, nativo di Alcamo, luogotenente di Giuliano, si forma alla scuola di sabotaggio nazifascista di Firenze nel luglio 1944. Nutre una particolare devozione per il santo calabrese. Si sta facendo le ossa e, mentre diventa un killer di spicco, non disdegna di partecipare alle celebrazioni di questo santo patrono. Nella sua città, la Madonna dei Miracoli è nel cuore della gente. Alla processione che ogni anno si svolge il 22 giugno, Ferreri è sempre in prima fila. Come si possa conciliare il mestiere del tagliagole con la sua fedeltà a Santa Romana Chiesa, la sa solo lui.
Quello che invece sappiamo è che Fra’ Diavolo partecipa alla strage di Portella della Ginestra. All’inizio della sua carriera, però, giocando fuori casa, il suo protettore è il santo della Calabria, particolarmente venerato a Paola e nella provincia di Cosenza. Una città che i Servizi indicano come base logistica della banda Giuliano al Sud, a partire dal 1944, in connessione con l’intelligence di Salò. Altri banditi monteleprini venerano l’immagine del Cristo crocefisso o di Santa Rosalia, in quanto il paese risente dell’influsso del cattolicesimo Palermitano.
Quella di tenersi cari i santi non è una necessità che hanno solo i banditi. E’ comune a molti altri criminali, a prescindere dalla loro levatura. Ad esempio, in tempi recenti, abbiamo scoperto che lo stesso Bernardo Provenzano, prima di essere acciuffatto nelle campagne di Corleone, esercitava, con risultati nefasti per i comuni cristiani, l’esegesi biblica nella stalla in cui fingeva di vivere, mangiando cicoria e ricotta fresca. Annotava accuratamente i passi che più lo colpivano, con la sua minuta grafia a matita. Con la Bibbia in mano decideva a chi dare la morte. Si riteneva il sommo pontefice di una chiesa tutta immaginaria.
Lo squadrone della morte capeggiato da Salvatore Giuliano è alle origini di questo mondo di diavoli e di santi. Non averlo capito prima, è certamente una colpa grave degli storici. Attorno al terrorista monteleprino, si muovono stormi di frati e di preti in odore di santità, vescovi e cardinali, fondatori di opere pie e istituti conventuali. Qui, preghiere, canti e omelie hanno un suono e un ritmo diverso dalle chiese povere del contado. Sono luoghi in cui, talvolta, i canti si uniscono alle bandiere e le genuflessioni agli arsenali. Armi che sparano, che uccidono, che generano il connubio esplosivo tra mafia, banditi, polizia e poteri ecclesiastici.
Non è un caso che nell’ indice di un diario tenuto da un altro luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta – durante la sua detenzione nei primi anni ’50 – leggiamo: “I miei rapporti politici con padre Biondi di Monreale” (capitolo 15); “Padre Biondi mi visita nelle carceri di Palermo” (capitolo 16); “Il mio buon amico Cardinale Ruffini” (capitolo 20); “Le promesse del cardinale Ruffini (capitolo 21); “La visita nel carcere del Cardinale” (capitolo 22); “Per un ex monaco dodici ergastoli” (capitolo 36).
Giuseppe Cornelio Biondi, classe 1909, monaco benedettino dell’arcidiocesi di Padova, è un elemento chiave per capire gli intrighi degli anni Quaranta. Il maresciallo Giovanni Lo Bianco (Cc) in un suo libro di memorie, Il carabiniere e il bandito, ce lo presenta come un simpatico imbroglione. Se il giudizio non fosse espresso dall’autorità che firmò il Rapporto giudiziario sulla strage di Portella della Ginestra, la cosa potrebbe non avere rilievo alcuno. Al contrario, è il segnale dei depistaggi e dei paraventi dietro ai quali il Robin Hood monteleprino era solito nascondersi. Biondi è il caso più emblematico. Nel novembre 1944, padre Eugenio Zappaterreni, a Padova, lo convoca e gli ordina di recarsi dal maggiore delle SS Otto Ragen, a Verona. Ha una missione da affidargli. Dovrà recarsi in Vaticano, per conto dei Servizi nazifascisti, per attività di spionaggio e per raccogliere fondi destinati alla guerra segreta oltre le linee. Ma c’è un intoppo. Nell’attraversare la linea Gotica, Biondi è arrestato da una pattuglia americana e poco dopo confessa tutto.
Strano posto Verona, nelle cui vicinanze è attiva una scuola di sabotaggio e di spionaggio frequentata, ad esempio, da Gino Locatelli della Decima Mas che, qualche mese dopo , troveremo nella provincia di Palermo a fare da istruttore alla banda Giuliano.
Ma non dobbiamo andare molto lontano per cogliere i rapporti di questo plotone armato con le gerarchie ecclesiastiche. A Monreale, ad esempio, c’è Villa Carolina, di proprietà dell’arcidiocesi di Palermo. E’un luogo dove circolano mafiosi e banditi, buono per riunioni e tavolate, nascondere facoltosi sequestrati, armi e munizioni. E’ frequentato anche da Pisciotta e da Giuliano in persona. Qui sono di casa i Miceli e i Minasola., capimafia di peso. E ci sono anche i carabinieri del Corpo forze repressione banditismo. Qui, il capobanda trascorre le sue giornate a scrivere memoriali e lettere minatorie. E’ un porto franco. Possibile che l’arcivescovo di Monreale ignori questo andirivieni?
Ma andiamo a Roma. I rapporti dello spionaggio italiano ci dicono che nel ’46-’47, nei sotterranei del convento di Santa Maria Romana, si stampa il foglio neofascista “Vent’anni”, organo dei Fasci di Azione rivoluzionaria (Far) di Pino Romualdi. Un luogo frequentato da loschi individui della malavita romana come Armando Di Rienzo e da Franco Garase, inteso “Lo Zoppo”, emissario, nella capitale, della squadra armata di Giuliano. Ma ecco la rivelazione che ci fa il Sis: tutta l’organizzazione dipende occultamente dal Centro informazioni Pro Deo diretto da un altro frate, il belga Felix Morlion, il capo dei Servizi di intelligence della Santa Sede. E non è casuale che sia proprio Morlion a spedire padre Zappaterreni in Argentina, negli stessi mesi, per raccogliere fondi dall’internazionale nazifascista che ha messo radici a Buenos Aires. Il segretario del frate, guarda caso, è un giovanotto promettente che risponde al nome di Giulio Andreotti.
Certo, in quei mesi i frati non se ne stanno a intonare canti gregoriani nelle abbazie. L’anticomunismo è un affare serio. Lo sanno bene anche i cappuccini che hanno un loro convento in via Sicilia, angolo via Romagna, a poche decine di metri dalla sede romana del Controspionaggio americano diretto da James J. Angleton e Philips J. Corso. E ‘ il Comando alleato a raccontarci nell’estate del 1946 che, nei sotterranei di questo convento, trovano rifugio le squadre armate del clandestinismo fascista. E sono proprio di documenti del Servizio Informazioni e Sicurezza (Sis) a dirci che Salvatore Giuliano e il suo vice Fra’ Diavolo sono tra i capi delle Squadre Armate Mussolini (Sam) e dei Far tra il 1946 e il 1947.
Padre Pio
Cappuccino è anche Francesco Forgione, in arte Padre Pio, a San Giovanni Rotondo in Puglia.
Scrive il giornalista Lello Vecchiarino sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 29 settembre 2010, a proposito delle varie identità dietro alle quali si celava il terrorista di Montelepre: “Il santo del Gargano senza mezzi termini aveva parlato di un sosia, ‘un povero figlio di mamma’ fatto morire al posto del bandito siciliano. [...] E’ ancora vivente un testimone di quei giorni. Si chiama Giovanni Siena, scrittore e giornalista. Le sue parole sono inequivocabili: ‘Per una ventina di volte mi sono trovato davanti alla scena, diciamo, in un salottino del convento, e Padre Pio, ogni volta che individuava fra i presenti un siciliano, un palermitano, gli poneva la questione: se lui era dell’avviso, secondo quanto pubblicato dai giornali, che Giuliano era morto. E quelli rispondevano: ‘Ma sì, è tanto evidente. L’abbiamo visto crivellato di colpi, sul catafalco, la mamma che piangeva disperatamente sul figlio morto’. Ma Padre Pio si burlava di questa versione facendo capire che sotto c’era una cosa losca, una messa in scena. Quella della cattura e dell’uccisione di Giuliano, diceva, era una messa in scena che era costata la vita a un povero innocente che gli somigliava. Salvatore Giuliano non è morto, aggiungeva. Lui ora se ne sta in America.”
“Per un momento, quindi – scrive Vecchiarino – la vita di un santo si è incrociata con quella di un fuorilegge, fino al punto che – come rivelò Padre Pio allo scrittore Pier Carpi – lo stesso Turiddu scrisse una lettera al Frate offrendogli l’incarico di cappellano della propria banda. E non era certo un sosia quello che, travestito da Cappuccino, giunse a San Giovanni Rotondo. Era Turiddu.”
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino