[Sesta puntata della Rubrica Nella pancia del drago]
Quand’è che un legittimo tòpos letterario diventa un cliché? E quante volte in caccia estatica di cliché ci si dimentica cosa sia un tòpos letterario e perché sia legittimo?
Benvenuti alla sesta puntata di Nella pancia del drago, rubrica (gastrica) di approfondimento fantasy; e il fantasy, si sa, è colmo di cliché. Ancor più è colmo, però, di un seguito di lettori il cui sport preferito è evidenziarli, tanto che verrebbe voglia di cambiare genere di letture non tanto per il ricorrere effettivo di cliché nella narrazione, ma per non sentirne più parlare dalla critica letteraria.
Oggi, il redattore della rubrica è particolarmente di buon umore (ouch! un avverbio in -mente, andrò all’inferno dei narratori!) e dall’alto della sua fallibilità – umana e narratologica – si lascerà andare ad alcuni dubbi amletici, e senza fornire alcuna risposta concreta per chetarli.
Ma partiamo con ordine: che diavolo è un cliché? La parola cliché altro non è che un sinonimo di “stereotipo” (dal greco stereos: solido; e tipos: modello, immagine). In letteratura, un cliché è la rappresentazione di situazioni o personaggi prevedibili in quanto riproposti con eccessiva ricorrenza. Hang on now. Torniamo indietro tra i banchi del liceo e ricordiamoci di quando nelle ore di letteratura ci sforzavamo di non pensare a dei grossi grassi roditori neri ogni volta che il professore nominava i tòpoi. Tòpos, dal greco, letteralmente luogo: in letteratura, un argomento o espediente narrativo ricorrente e funzionale all’evoluzione dell’opera stessa. In parole povere, un luogo comune.
Tutto remerebbe in direzione di una sinonimia, se non fosse l’accezione opposta che i due termini hanno acquistato in letteratura. Un tòpos letterario è un elemento retorico strutturale che rappresenta un plus valore, un’imitatio virtuosa di un canone narratologicamente efficace, come ad esempio, nel fantasy – come si è discusso nelle scorse puntate – l’intero impianto concettuale del Secondary World, nonché le diverse fasi narrative della quest (la cerca, la quête), dal rompersi di un equilibrio iniziale del mondo dove la storia è ambientata sino al ribilanciamento finale dello stesso tramite le gesta dell’eroe.
Questi sono tòpoi letterari. Il fatto che nel fantasy il Secondary World debba essere per forza uno pseudo-medioevo, che l’equilibrio del mondo debba rompersi a causa di uno che ha la colpa di essere vestito di nero, e che chi lo debba sistemare brandisca una spada e sia bello e biondo: questi potrebbero essere cliché. Confonderli è tanto facile quanto inopportuno.
Una storia, per essere tale, ha bisogno di personaggi. Il personaggio principale è detto “protagonista”. In un pattern narrativo come quello del fantasy classico, il protagonista a cui s’intreccia il destino del mondo intero è stato spesso presentato agli occhi del lettore come un prescelto. Uno tra tutti? Mr Harry Potter, Privet Drive n.4. Ma cosa eleva un eroe/antieroe protagonista al grado di pre-scelto? Letteralmente una predestinazione. Una profezia, un omen, che lega il personaggio al suo destino a prescindere dalla sua specificità, dal fatto che ci possa essere portato o meno, che abbia le carte in regola per compierlo. In pratica, per rispondere alla domanda «Perché il protagonista è il protagonista?» il narratore, in imbarazzo, anziché lasciare la centralità del personaggio all’evoluzione delle sue scelte, tira fuori l’arca dell’alleanza dal baule e urla «Perché c’è scritto qui!».
Che ci si creda o meno, nella letteratura fantasy questo tipo di personaggio non è così diffuso come si pensi, e spesso processati come “prescelti” sono semplicemente eroi colpevoli di avere un certo background personale comune, certi tratti psicologici ricorrenti, e di aver portato a termine le loro quest con una serie straordinaria di successi. In altre parole: non si dovrebbe confondere la predestinazione interna alla storia (nella Pergamena delle Ere c’è scritto il nome del protagonista), con quella derivata dalla narrazione e strutturale a essa in quanto racconto lineare di avvenimenti concatenati l’uno all’altro (ci si potrebbe buttare in mezzo un po’ di fisica dei quanti e il buon vecchio Schrödinger).
Un esempio di questi tratti comuni responsabili dell’identificazione del protagonista come presunto “prescelto” è spesso la questione orfano. Gran parte dei più celebri titoli fantasy contemporanei sono stati de facto dei cross-over, ovvero dei libri per Young Adults adatti a una readership senza età, come d’altronde tutta la letteratura fantastica che conta. Il primo particolare che salta all’occhio di questi giovani eroi è un trauma familiare di qualche tipo: aver perso uno o entrambi i genitori; essere stati da loro abbandonati; essere stati maltrattati ed essere fuggiti per emanciparsi; traumi, questi, che guidano il personaggio nel suo cammino di rivalsa o vendetta, spesso intrecciato a quello dell’intero mondo e molto spesso vittorioso (avremmo altrimenti una tragedia).
È un’impostazione psicologica di questo tipo in qualche modo un marchio di predestinazione? La rete pensa di sì, perché si sa che per mandare avanti il molto-rumore-per-nulla delle testate di pseudo-approfondimento online bisogna ritritare l’ovvio, ed essere sempre cool:
«(The orphan) Harry Potter, Luke Skywalker, and King Arthur/Wart. Across media, this is a common cliché, often related to prophecy. As children, we all dreamed of being picked from obscurity to become a celebrity, a hero, or a doer-of-great-deeds. Let’s leave those dreams in childhood and not in our fantasy novels, okay?» (Fantasy Faction).
Okay man, il redattore di questa rubrica va in pensione. Mi chiedo, c’è nessuno che si fermi un momento a riflettere su cosa possa essere la letteratura prima di giocare a giudicarla? Quale siano le istanze esistenziali che la generano, e quali di queste debbano essere rappresentate in modo efficace tanto da renderla e averla resa ciò che è, medium dei media dell’espressione simbolica umana?
Privare un personaggio della propria famiglia non è gettarlo nella predestinazione, ma nella libertà di scelta che nei sapiens sapiens deriva dall’emancipazione dal nucleo familiare (biologico o meno non fa alcuna differenza). Non solo Harry Potter predestinato è orfano. Qualcuno ha mai sentito parlare dei genitori di Locke Lamora? Bilbo non è forse lo zio di Frondo? O sarebbe il portatore dell’anello andato all’avventura con la madre che lo costringeva a stare chino sulle zucche? Forse sarebbe cresciuto al pub con la testa a posto. Sparviere diventa mago dai suoi genitori caprai? Avremmo le Cronache dell’Era Oscura con Torak felicemente ramingo con suo padre nella foresta?
Alias: avremmo un qualsiasi essere umano se questo non si fosse separato in qualche modo da chi l’ha cresciuto? No. E se il personaggio della nostra fantasy novel non è un “umano” emotivamente coerente (a prescindere dal numero di occhi e orecchie), cosa avremmo? Un originalissimo fantasy di cui non ci frega assolutamente nulla.
C’è un’altra parola magica dal greco, gemella di stereotipo, che unisce a tipos a un’altra radice: arché (“originale”). Archetipo: immagine, e non nel senso di originale-innovativo, bensì di ab origine; termine filosofico a indicare tutto ciò che nella psiche umana è forma innata, inclinazione istintiva, compresi i canali di espressione delle istanze del mito, le strutture meta-concettuali di tutto ciò che diviene narrazione.
Un cliché è una banalizzazione di un pattern narrativo data dall’uso ricorrente. Ma la letteratura sussiste come tale in quanto perpetrazione di usi ricorrenti. Se la si accetta come un insieme di strutture archetipali che si susseguono, e in più la si inserisce in una memoria eterna non soggetta a obsolescenza come potrebbe essere l’universo carta+web, il mito dell’innovazione si sgretola per quello che è: un’illusione (ci si potrebbe buttare in mezzo un po’ di postmodersnismo). La differenza tra tòpos virtuoso e cliché vizioso non sta nel cosa si narra, Nihil sub sole novi!, ma nel come lo si narra. Ecco perché, nonostante il molto-rumore-per-nulla, sono gli scrittori a fare ancora la differenza, che i loro protagonisti siano prescelti o meno.
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Ci ritroviamo on line il 03/08/2013 con la puntata n. 7 della Rubrica Nella pancia del drago: Fantasy? No, non leggo letteratura per ragazzi.
Citando l’esordiente “autore per ragazzi” Mark Twain: «l’unica differenza tra la verità e la fantasia è che la fantasia deve essere credibile». Ovviamente gli adulti non lo sanno (Ssssh… non diteglielo!)