"Possa perdonarmi la parola se la uso per parlarmi
/ mentre picchio e picchio contro il tronco / a scavare un incavo,
dove raccogliermi", dice Sandra in un frammento in epigrafe a questa
piccola raccolta inedita. Come a scusarsi di una scrittura certo lirica,
con molto "io" dentro, ma certamente non egocentrica. Del resto la
parola non è un "altro da sé", men che mai in poesia; non è un dio che
"parla attraverso", è semmai proprio lo strumento con cui si scava il
nostro simbolico tronco.
E in effetti la
cifra di questi versi è appunto, credo, l'uso di una lingua "consunta",
ma nel senso buono, come i ciottoli che si trovano su certe spiagge
elbane. Cioè naturale e levigata dall'uso e dalla natura del linguaggio
stesso, un attrezzo familiare con cui percuotere e far risuonare i
ricordi, i dolori, le malinconie.
Malinconia, certo. E nostalgia, qualcosa che mi piace chiamare un piccolo nostos, appunto, necessità di un ritorno o di una ripercorrenza, non sempre possibile, di sentieri, di momenti. Dall'Elba alla terra ferma e ritorno, a Pisa o Livorno, da una casa all'altra, dalla quiete alla lotta, in una certa orizzontalità fisica del percorso, mentre il verticale del tempo è affidato alla perentorietà narrativa dell'imperfetto e del passato remoto, cosa già di per sé encomiabile. Tempo che così rimarca il non detto, il non fatto. Forse anche il non scritto.
Tuttavia non si deve credere che si
tratti di lirismo puro e semplice, magari con tutti i suoi bei rimandi
letterari, alcuni lampanti. Direi innanzitutto che non ha importanza
classificare in tal senso questi versi, e a Sandra nemmeno interessa.
Semplicemente la sua voce è quella, con quella si distingue e si
esprime, su un terreno che, alla fine, non è più ego-centrico ma comune a
molti di noi, cioè di una esperienza esistenziale riconoscibile, di una
sostanza metaforica "semplice" e perciò immediata, cognitiva. Una voce
certo marcata da ciò che Sandra chiama, con un termine che ho usato
anch'io in altra occasione, isolitudine: una condizione
speculativa sullo spazio, l'orizzonte lontano, la vastità del mare (c'è
sempre una "città sul mare simile a una luminaria", una "finestra
mirante il mare"), ma insieme sentimento di una "terra avvolta
dall'azzurro" la cui "dimensione domestica" può essere anche prigione,
ripiegamento, quasi luogo endemico di un confronto costante con sé
stessi, i ricordi, i rimpianti, l'esistenza. (g.cerrai)
da ESTERNI
2
In principio
la prima casa
fu zucchero sparso
su piano di marmo
trasparenze di vetri
pizzicati dai venti
amici o nemici
- a seconda -
in una Calata
bardata d’azzurro
in principio.
9
Oh i libri, i tuffi, i frutti e i flutti giovanili
nella casa che svettava bianca sulle mura
sotto al Forte del Falcone!
Fu là che tornammo a riveder le stelle
coronare i soli, le nuvole mollare le colline
e l’utero abortire lo scirocco tra le rocce.
11
L’isolitudine
divenne terra ferma
angolatura dalla quale mi affacciavo
esilio in continente.
Il mare era una striscia nera e oscura
un triangolo lontano
con le navi coi container
così diverso dal blu isolano
con le rocce a precipizio
i manti renosi e il suo silenzio.
Correvano i parà cantando la mattina.
Tra un’andata e un ritorno a Pisa
per ultimare gli esami dei miei studi
uscivo raramente,
leggevo Bukowski sul parquet
finché lui, insegnante ai figli
delle guardie, rientrava da Pianosa.
Fine corsa - dicevano
scendendo dal convoglio,
i ferrovieri alla stazione
di Livorno.
17
Il quotidiano vivere
in una terra avvolta dall’azzurro
corrode gli eccessi a svelare
l’essenza spesso offuscata
a chi abita luoghi ricchi di volte e di volti
da tangenziali uniti.
22
[Parità! si urlò per noi, le figlie nate
e quelle da venire che crebbero
e nacquero e di nuovo si vestirono
da donne. Fu una partita giusta
-accolta, in parte, anche dagli altari-
scandita dai tic tac degli orologi
e da lancette che giravano, giravano
come un cuore tachicardico
mentre i colleghi salivano -lievi salivano-
di grado perché privi del mestruo
che innova le cellule a ogni ciclo.
Cessato il sangue, un consuntivo:
l’impressione è di una stagione
ricca di grano ma sale il cruccio
per i mancati abbracci ai figlioletti
-No, non c’è colpa , non c’era tempo –
per le passioni femminili soffocate
-No, non c’è colpa, non c’era tempo –
per aver tenuto un passo innaturale
-No, non c’è colpa, non c’era aiuto-
per la televisione che inquadra
belle manager, belle professioniste,
belle politiche, belle accademiche,
belle attrici, bei culi, belle tette
Belle , Belle, Belle
mentre il bello che snobbammo
- non eravamo solo corpo
o mi confondo?- ci è sfiorito
così, in un periodo durato
quanto la sosta di un passerotto
su un cancello. Il tempo di mettersi
gli occhiali ed è scomparso.]
da INTERNI
4
quel promossa nel quadro appeso al vetro
apriva al tempo senza vento - mare
nuovi amici, libri, amori giovani
generati dalle ore sulla spiaggia -
libero d’ombre, saturo di sogni
che sul cuscino si declinavano
prima del sonno, prima dei temporali
che sempre precedevano d’un mese
la prima campanella della scuola
6
Scorre altrove la vita che volevo.
La colpa è del ronzio d' un calabrone
che coprì la nota giusta e lo sguardo
di quel volto esposto al vento – di quando
con addosso la scamiciata a quadri
il corpo non sudava per il caldo –
restò dentro un fotogramma
nel cassetto dei miei ieri.
13
[mi pettinavano
sino a farmi male
e forse quei nodi sono i primi
dei tanti
che resero ingarbugliata
la matassa
da dipanare
per perdermi del tutto
o ritrovarmi]
Quanto sopra racconto, a discolparmi.
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Foto: Alice Birkin