Vae victis! (Guai ai vinti!)
di Massimiliano Sardina
In Terre selvagge Sebastiano Vassalli ricostruisce una delle più grandi e misteriose battaglie del mondo antico. L’anno è il 101 a.C., il seicentocinquantaduesimo dalla fondazione di Roma, ossia duemilacentoquindici anni fa. I luoghi dello scontro sono i Campi Raudii, nome antico di quella regione che oggi chiamiamo Piemonte, e più precisamente quell’area in pianura attraversata dalla Dora, dal Tanaro, dal Sesia e da un tratto del Po, tra Novara e Vercelli. A fronteggiarsi nei rispettivi accampamenti ci sono da una parte i Cimbri (popolo originario di quei paesi scandinavi che oggi chiamiamo Svezia e Norvegia) e dall’altra i Romani, capeggiati dal console Caio Mario. Tutto si compie sotto il monte Ros (il monte Rosa), in un territorio per la gran parte aspro, incontaminato, non ancora addomesticato dall’impronta dell’uomo. I Cimbri, feroci invasori, vagavano di saccheggio in saccheggio alla ricerca di una terra ideale che chiamavano Midgard. Lo stile di vita nomade dopo decenni di spostamenti venne a noia a una parte della popolazione che decise di staccarsi – una vera e propria secessione – e di divenire stanziale; questa frangia cimbra andò a popolare l’altopiano dove oggi sorge Asiago. Per sfuggire all’avanzata dei Cimbri, i Celti (che i Romani chiamavano Galli) abbandonarono i loro villaggi e si rifugiarono sul monte Rosa, fiduciosi della controffensiva dell’esercito di Roma. Di questa battaglia, combattuta tra maggio e agosto nella pianura tra Novara e Vercelli, ci sono pervenute informazioni discordi. L’unico testimone diretto, spiega Vassalli, fu il legatus di Lutazio Catulo, Lucio Cornelio Silla; le memorie di Silla (che noi conosciamo attraverso Plutarco) non offrono però un racconto attendibile degli avvenimenti, visto che il principale obiettivo del legatus era quello di screditare l’operato di Caio Mario. Oltre a Lucio Cornelio Silla, della guerra dei Romani contro i Cimbri si sono occupati gli storici vissuti nelle epoche successive (Tito Livio, Anneo Floro, Velleio Patercolo, Paolo Orosio, Eusebio di Cesarea…); nella Vita di Mario (Caio Mario) Plutarco trascrive fedelmente il resoconto di Silla, che pur essendo orientato a proprio vantaggio contiene molti dettagli veritieri, utili a ricostruire quanto più esaustivamente l’intera vicenda.Come già aveva fatto in La Chimera (splendido affresco dei tempi dell’Inquisizione) anche in Terre selvagge Vassalli compie un’incursione indietro, molto indietro nel tempo: ventun secoli, una bella impresa. E scopriamo che le donne e gli uomini di allora «ragionavano e si comportavano più o meno come ragionano e si comportano le donne e gli uomini di oggi, ma vivevano in un ambiente molto diverso e dipendevano dal soprannaturale, cioè dagli Dei, più o meno come noi oggi dipendiamo dalla tecnica e dagli oggetti prodotti dalla tecnica.» Dai
campi larghi ai piani ravvicinati, dalle vedute a volo d’uccello ai dettagli più particolareggiati, quello di Vassalli è un racconto a più voci, una sequenza di avvenimenti e di stati d’animo ripresa da più punti d’osservazione; dal piccolo villaggio celtico di Proh ai grandi accampamenti dei due eserciti in attesa del conflitto, fino ai gruppi dei fuggiaschi sparpagliati su per la montagna. Dalla grande storia Vassalli estrapola le piccole storie del fabbro Tasgezio (del villaggio celtico di Proh) e della cimbra Singrun. Una piccola grande storia d’amicizia e d’amore è quella tra il patrizio Decio Valerio Rutilo e il liberto Stazio: «…L’amicizia è il sale della vita. Io e Stazio siamo cresciuti insieme: se uno dei due dovrà morire, moriremo insieme.» Al di là dei personaggi e delle singole storie (ipotetiche o storicamente accertate) i veri protagonisti sono i Campi Raudii, le terre selvagge di quell’Europa ancora in fieri, forse non così diversa dall’Europa di oggi. L’impenetrabilità delle foreste, i fanghi malsani delle paludi, la calura agostana che frigge la polvere delle pianure, i tratti fluviali più prossimi ai villaggi qua e là addomesticati da ponticelli rudimentali, i terreni coltivati, i sentieri impressi sull’erba dal transito dei carri… ed è su questi scenari, tanto aspri quanto placidi e immobili, che viene ad appollaiarsi il mostrum della guerra. Si direbbe che i Cimbri facciano la guerra tanto per farla, senza una ragione ben precisa, e che altrettanto facciano i Romani, sempre pronti a spingere più in là, fin dove non si sa, i confini dell’Impero. La guerra si imprime come un timbro sulla terra, scava solchi e li riempie di ossa e di sangue. Alla fine la spuntano i Romani, e Caio Mario si fa erigere un bell’arco di trionfo (più o meno dove oggi sorge Cameriano, che per l’appunto deve il suo nome a Caio Mario).«L’arco di Mario oggi non c’è più e non dobbiamo stupircene. La pianura del Po, nell’Italia settentrionale, è una lavagna su cui sono state scritte infinite storie che poi il tempo si è sempre incaricato di cancellare per scriverne delle altre; e così anche deve essere successo con la madre di tutte le storie cioè con questa.» Questa guerra di ventun secoli fa la si combatte ancora oggi. L’Europa, conclude Vassalli, non era unita allora così come non lo è oggi e «potrà tornare a essere il centro del mondo se riuscirà ad accordare tra loro le sue molte anime, come si accordano gli strumenti di un’orchestra perché suonino tutti insieme una sola musica. La musica del futuro.» Dopo tante divisioni e tanto sangue non resta che appellarsi a un semplice messaggio di speranza.
Massimiliano Sardina
LEGGI ANCHE:
PER UNA SECESSIONE PIÙ SVELTA | Piccoli confini di spicciola umanità
ITALIANI, nonostante tutto L’Italia si mobilita in difesa del Tricolore
Cover Amedit n° 19 – Giugno 2014, “Barbatrucco” by Iano
Copyright 2014 © Amedit – Tutti i diritti riservati
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014
VAI AGLI ALTRI ARTICOLI: Amedit n. 19 – Giugno 2014
Per richiedere una copia della rivista cartacea è sufficiente scrivere a: [email protected] e versare un piccolo contributo per spese di spedizione.