Un angelo di desolazione
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L’ultima volta che ho visto un santo è stato sull’autobus 64 che da Botteghe Oscure mi ha portato alla stazione Termini un pomeriggio di maggio. Era un santo in stampelle, di circa 80 anni, con la pelle di una tartaruga e il sorriso di un folle. L’ho aiutato a salire: il minimo che potessi fare, con un santo. Faceva fatica, una fatica tremenda a muoversi. Due rumeni ridevano dandogli le spalle. Ciò che lampeggiava di santità – o meglio la prima cosa che notai – fu l’anello che portava sul medio della mano destra. Una mano scolpita nel rosa, che avrei volentieri portato a spasso per San Lorenzo in una delle mie passeggiate crudeli. O che avrei cotto al calore della luna in notti di cielo-jazz, “my funny valentine, sweet comic valentine“.
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La seconda volta è stata più breve, ubriaca: si trattava del solito vecchio santissimo gelataio di San Lorenzo, che non ho mai visto fare un gelato e che mangia stecchini come fossero amori. Bruciato, brizzolato pazzo in infradito e giubbotto jeans, due lire per una battuta eh, che ne dici? sulla torre del palazzo della poesia è il gallo che indica la via ai migliori disoccupati del pianeta Terra Mantenuta, un beat con un sorriso da serial killer e il coraggio di un gelataio in cerca di baci.
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La prima cosa che ho capito è stata che assomigliavo a Cristo, e per i capelli e per il pizzetto e per il cuore. “Forse per i capelli, signore”, risposi coraggioso come un beat, “non certo per il cuore”. “No figliolo – mi fu detto dal santo Matusalemme in stampelle, dolcissimo – tu sei Gesù Cristo”. E allora un’illuminazione, come se io fossi davvero il Salvatore arrivò a dondolarmi nel frastuono dell’asfalto di Roma, e iniziai a lanciare frecciate ai peccatori, puntando invaghito i piedi della custode del mio cuore da santo nuovo Cristo, cercando di moltiplicare i poeti e le loro muse, non curandomi più (in realtà) dei discorsi folli in aramaico del mio santo santissimo vecchio in stampelle. Guardandolo negli occhi, dopo secondi di onnipotente bontà: “E lei, guardi che occhi, cazzo lei è un santo, un vero santo!” “Ancora no, figliolo, spero di diventarlo, credo di meritarlo”. Occhi azzurri devastati dalla santità mi fissavano CONSAPEVOLI e io lì a balbettare: “Santo, santo, santo, santo…”.
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“Come va?” chiesi masticando della cicoria vecchia tra i denti storti (nonostante capelli, pizzo e cuore). “Diciamo che và, diciamo!”. “Eh, che vuol fare, proseguiamo”. “Eh già, proseguiamo – rispose il gelataio pazzo e santo – proseguiamo nello SCONVOLGIMENTO”. Slurp.
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Gesù ascoltava i suoi apostoli. Io provai a capire la straordinaria zuppa di vocali e consonanti del mio vecchio amico cecoslovacco (così si definiva) e del suo racconto di ribellione, ma ho colto solo questo: il mio santo occhi-azzurri-come-quelli-della-madonna (santa donna) è stato ovunque: in carcere a Praga con i comunisti al potere, in seminario a Roma, processato dalla Sacra Rota per ribellione contro la corruzione in Vaticano. “Corruzione spirituale eh figliolo, mica altro!”. E io giù a godere del suo orizzonte azzurro sparso così impunemente su un autobus mentre i turisti guardavano le loro stupide cartine e le signore disgustate mi chiedevano cosa volesse da loro il mio santo Matusalemme (che nel frattempo provava a comunicare con loro, a mostrarle cos’è “la PUREZZA SPIRITUALE” – così si espresse, sì), il tutto mentre il sottoscritto che giocava a fare il Cristo siciliano a Roma moltiplicava occhiate e bontà, scordandosi perfino del sudore sotto le ascelle e chiedendo: “E qui cos’hai fatto, santissimo uomo?” “Qui? Un incidente d’auto. Ma io non morirò fin quando non lo deciderà Dio”. Santo, santissimo vecchio pazzo.
Le sue mani disegnarono infine un grazie mentre estasiato vidi le sue stampelle allungarsi fino a centrare il terreno così poco santo di Termini.