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Sardegna: maschere etniche e tradizionali per un carnevale speciale

Creato il 29 gennaio 2013 da Yellowflate @yellowflate

Mamuthones e Issohadores – Mamoiada
Portatrice di una storia che si perde nella memoria, la maschera dei Mamuthones è sicuramente il più grande simbolo del carnevale sardo, essendo oramai nota oltre i confini isolani ed europei per il suo forte valore simbolico e l’alone di mistero che ancora la circonda.
Dal rito della vestizione, vera e propria metamorfosi pervasa di generale eccitazione, al passo lento e grave della camminata con i pesanti campanacci sulle spalle, fino alla danza teatrale e grottesca: tutto assume un valore simbolico ed ancestrale che provoca di volta in volta sgomento, paura, ammirazione.


Gli Issohadores, dalla figura più gentile e fiera nel loro abito con prevalenza di rosso e bianco, hanno compito di protezione e controllo, una andatura più leggera che però sorprende nei tanti lanci de “sa soha”, ovvero la fune con cappio di cui sono muniti. Con questa “catturano” di volta in volta un malcapitato che, nell’antica usanza, doveva pagare un simbolico pegno. Questo è l’unico rapporto che intercorre tra il pubblico e le maschere.
Mamuthones ed Issohadores, dalla funzione assolutamente complementare ed inscindibile, attirano ormai da anni le attenzioni di decine di studiosi ed appassionati delle tradizioni.
Boes e Merdules – Ottana
Anche a Ottana, culla di uno dei carnevali più noti ed autentici della Sardegna, due maschere si accompagnano e si fronteggiano nel rituale. I Boes (buoi) dalle lunghe corna taurine, ricoperti del vello di pecora bianco e dai pesanti e grandi campanacci, sono tenuti per le redini dai Merdules, figure umane ma dai volti inquietanti e deformi. Entrambe le maschere, realizzate generalmente in legno di pero, sono dette “Carazzas”.
“Su Boe” rappresenta l’animale ribelle, la forza vitale che scalcia, si rotola ed infine si scaglia contro il padrone. “Su Merdule” deve invece far valere la propria autorità e domare con il proprio bastone o con “sa Soca” (una frusta di cuoio) la bestia che rischia di creare il caos. È fortissimo il richiamo al mondo agropastorale che ha dato i natali a queste figure. In più, intorno a loro compare spesso l’inquietante figura de “Sa Filonzana”, una donna generalmente ricoperta di abiti neri che fila la lana utilizzando un fuso a mano.
Leggendo per metafora, si dice che il filo rappresenti la vita, ed ogni volta che la donna si accinge a spezzarlo con le sue forbici, ci si deve precipitare ad invitarle da bere così da distoglierla dal fatale gesto!
Thurpos – Orotelli
I “Thurpos”, figura dionisiaca di uomini-animali ciechi, sono maschere di origine arcaica con sottintesi fini propiziatori, derivanti dalla necessità dell’uomo di ricercare un aiuto dalle divinità nelle difficoltà del quotidiano. Riscoperti nel 1978 da una ricerca dell’insegnante Giovannina Pala Sirca, che nella sua indagine attinse soprattutto da testimonianze orali, sottolineò l’importanza del rito propiziatorio per l’annata agraria delle maschere.
Si presentano con il viso pitturato del nero pesante della fuliggine di sughero, vesti scure d’orbace che richiamano la quotidianità contadina e pastorale, pantaloni da cavallerizzo e gilet e giacca di velluto oltre che i gambali in cuoio così come i pesanti scarponi rinforzati di chiodi.
I campanacci portati a tracolla sopra una grossa cintura rappresentano ancora di più i legami tra uomo e l’animale che ne condivide il destino quotidiano nel lavoro dei campi. Spesso legati tra loro come buoi ed accompagnati dal contadino (“su Voinarzu”) che ne tiene a bada l’aggressività con un bastone, è anche possibile assistere a scene di “ferratura” o semina simbolica dei campi. Qualora i Thurpos riescano a catturare uno spettatore dal pubblico, questi sarà “costretto” a seguirli ed offrirgli da bere, così da offrire buon auspicio per l’annata che verrà.
Attittidu – Bosa
La bizzarra maschera bosana, protagonista del martedì grasso, è una figura di madre vestita a lutto e con un bambolotto in braccio, che si aggira per il paese cantando “S’Attittidu” appunto, un lamento tra funebre ed il satirico con cui chiede “unu tikkirigheddu po su pitzinnu”: del latte per il proprio bambino malnutrito. Malnutrizione dovuta ai bagordi della sconsiderata madre, che lo ha abbandonato per andarsi a “divertire” nei giorni del carnevale!
Così tra lamenti parodistici e pesanti allusioni a sfondo sessuale, si esprime la mimica – a volte drammatica e tetra, più spesso goliardica e scherzosa- del carnevale di Bosa.


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