Sappiamo che essi sono definiti femminili a causa di quelle sporgenze nella loro parte superiore, definite da tutti gli studiosi sardi (più per copia e incolla che per un esame approfondito del soggetto sul piano artistico, storico ed etnologico) “rilievi mammillari”. Noi, invece, in questo istante stiamo realizzando che i tre betili siano sì rappresentazioni di altrettante donne, ma non per la banale considerazione che le sporgenze si riferiscano a delle mammelle, bensì per le movenze, che traspaiono chiaramente trasmettersi da tre donne che avanzano con atto femminile tipicamente aggraziato, quasi permeato d’una ieratica solennità. Un incedere lento, pur se deciso, di tre feminas che si recano a campu, pro tzappittare (?), dialogando fra loro. È da notare come l’occupazione dello tzappittonzu o sarchiatura, era operazione particolarmente delicata, tesa a rendere ottimale la crescita del grano. Tale occupazione era posta in essere dall’arte e sensibilità della donna, la quale curava amorevolmente la pianta, dalla nascita fino alla maturazione e raccolta del grano. Il grano era [nella salda gestione (paleolitica) della domus e in quella fondamentale dell’ager fertilis operata dalla donna] il mezzo attraverso cui si manifestava la sua supremazia nella sfera alimentare. Il frumento, era preso in consegna dalla signora che, all’esterno ed all’interno della casa, attraverso l’uso della madia, del forno e del focolare, ricavava il principale nutrimento, per gli abitanti la “casa”, ovvero la “famiglia”, ossia la “comunità”, indispensabile per raggiungere il futuro. Quindi, ben a ragione le movenze sono aggraziate, ma solenni, nella coscienza di adempiere ad un rito (non un lavoro) ch’era d’importanza vitale.In particolare, il dialogo si svolge fra le due donne alla destra nella foto: delle due, quella a sinistra (alla parvenza la più anziana delle tre – se ne interpretiamo la postura leggermente curva in avanti - quindi la saggia del gruppo, oseremmo dire la matriarca, per il modo autorevole con cui sopravanza le altre) sembra affermare un concetto di cui si sente molto sicura, infatti, procedendo nel suo cammino, getta lo sguardo in avanti con atteggiamento che non ammette replica. La figura alla sua sinistra (quasi teatrale nel suo porsi) ostenta un movimento del corpo che inclina tutta la figura verso la sua parte sinistra e, quasi alzando il piede destro, lancia uno sguardo sulla compagna di viaggio, a voler mostrare il suo alto stupore per quanto sentito ma, non si azzarda ad andare oltre, non permettendolo l’alto rispetto per l’autorità che le stava a fianco. La signora che cammina alla destra della coppia dialogante, sembra non partecipare allo scambio di parole, ma tuttavia pare attenta al loro contenuto, che mostra, se non condividere, almeno gelosamente memorizzare. Così, crediamo sia molto evidente come le sporgenze siano da considerarsi gli occhi della donna. Reputiamo ciò acclarato dalla posizione che esse assumono nella figura, così alta da escludersi che possano trattarsi di mammelle, ma anche perché in assenza degli occhi, oltre ad essere figure prive d’una più solida connotazione antropomorfa, risulterebbero tristemente rigide nel loro mutismo: pietrificate, appunto. Essendo invece, tali rilievi, dei veri e propri occhi, essi, oltre a restituirci delle figure incorrotte nelle loro proporzioni, mettono la voce a quelle feminas in cammino, che ci parlano con fare solenne dall’eternità.
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Sappiamo che essi sono definiti femminili a causa di quelle sporgenze nella loro parte superiore, definite da tutti gli studiosi sardi (più per copia e incolla che per un esame approfondito del soggetto sul piano artistico, storico ed etnologico) “rilievi mammillari”. Noi, invece, in questo istante stiamo realizzando che i tre betili siano sì rappresentazioni di altrettante donne, ma non per la banale considerazione che le sporgenze si riferiscano a delle mammelle, bensì per le movenze, che traspaiono chiaramente trasmettersi da tre donne che avanzano con atto femminile tipicamente aggraziato, quasi permeato d’una ieratica solennità. Un incedere lento, pur se deciso, di tre feminas che si recano a campu, pro tzappittare (?), dialogando fra loro. È da notare come l’occupazione dello tzappittonzu o sarchiatura, era operazione particolarmente delicata, tesa a rendere ottimale la crescita del grano. Tale occupazione era posta in essere dall’arte e sensibilità della donna, la quale curava amorevolmente la pianta, dalla nascita fino alla maturazione e raccolta del grano. Il grano era [nella salda gestione (paleolitica) della domus e in quella fondamentale dell’ager fertilis operata dalla donna] il mezzo attraverso cui si manifestava la sua supremazia nella sfera alimentare. Il frumento, era preso in consegna dalla signora che, all’esterno ed all’interno della casa, attraverso l’uso della madia, del forno e del focolare, ricavava il principale nutrimento, per gli abitanti la “casa”, ovvero la “famiglia”, ossia la “comunità”, indispensabile per raggiungere il futuro. Quindi, ben a ragione le movenze sono aggraziate, ma solenni, nella coscienza di adempiere ad un rito (non un lavoro) ch’era d’importanza vitale.In particolare, il dialogo si svolge fra le due donne alla destra nella foto: delle due, quella a sinistra (alla parvenza la più anziana delle tre – se ne interpretiamo la postura leggermente curva in avanti - quindi la saggia del gruppo, oseremmo dire la matriarca, per il modo autorevole con cui sopravanza le altre) sembra affermare un concetto di cui si sente molto sicura, infatti, procedendo nel suo cammino, getta lo sguardo in avanti con atteggiamento che non ammette replica. La figura alla sua sinistra (quasi teatrale nel suo porsi) ostenta un movimento del corpo che inclina tutta la figura verso la sua parte sinistra e, quasi alzando il piede destro, lancia uno sguardo sulla compagna di viaggio, a voler mostrare il suo alto stupore per quanto sentito ma, non si azzarda ad andare oltre, non permettendolo l’alto rispetto per l’autorità che le stava a fianco. La signora che cammina alla destra della coppia dialogante, sembra non partecipare allo scambio di parole, ma tuttavia pare attenta al loro contenuto, che mostra, se non condividere, almeno gelosamente memorizzare. Così, crediamo sia molto evidente come le sporgenze siano da considerarsi gli occhi della donna. Reputiamo ciò acclarato dalla posizione che esse assumono nella figura, così alta da escludersi che possano trattarsi di mammelle, ma anche perché in assenza degli occhi, oltre ad essere figure prive d’una più solida connotazione antropomorfa, risulterebbero tristemente rigide nel loro mutismo: pietrificate, appunto. Essendo invece, tali rilievi, dei veri e propri occhi, essi, oltre a restituirci delle figure incorrotte nelle loro proporzioni, mettono la voce a quelle feminas in cammino, che ci parlano con fare solenne dall’eternità.
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