Per chi non l’avesse capito, ho preso abbastanza di petto la questione “smaltimento oggetti inutilizzati/inutilizzabili”. Una mia collega mi ha svelato l’esistenza di un gruppo chiuso nato su Facebook con l’obiettivo di regalarsi o scambiarsi oggetti. In pratica, chi si iscrive può postare sulla homepage del gruppo le fotografie e le descrizioni di ciò che vende, specificando cosa desidera in cambio. Gli altri utenti, se interessati, si propongono e il venditore sceglie con chi barattare cosa.
Quando le ho spiegato che non volevo scambiare né regalare niente a nessuno -anche perché vedendo le inserzioni degli altri iscritti mi pareva facesse tutto abbastanza schifo- ma solo vendere per alleggerirmi, la mia collega mi ha suggerito di barattare i miei oggetti con generi di prima necessità non deperibili. Anzi, vedendo che ero molto restia si è gentilmente offerta di gestire i miei annunci, le contrattazioni, gli scambi. Ad oggi, grazie ad un talento commerciale evidentemente fuori dal comune, mi ha smaltito servizi da tè, da caffè, da tisana, portariviste, presine, teglie, il famosissimo setaccio per farina, un kit da sommelier e uno da barman. In cambio, ho ottenuto pastiglie per lavastoviglie, ammorbidenti, sale, pasta, creme corpo, svariati litri di olio extravergine e soprattutto milioni di capsule Lavazza.
Molto del recente ritorno in auge del baratto credo stia nel fatto che ogni transazione è unica. Lo scambio oggetto-denaro è standardizzato e facilmente replicabile in qualsiasi momento: il baratto, invece, è unico e basato sull’incontro di due oggetti che si scelgono a vicenda. Semplificando, è come quando due persone, in una discoteca affollata, si guardano in lontananza, si urtano semi-involontariamente, fingono di dirsii chelavorofai coshaistudiato e nel giro di un’ora finiscono in auto a trombare come ricci; sicuramente potrebbero pagare per ottenere lo stesso risultato, ma comprenderete che la magia svanisce un po’. Il baratto è win-win: io voglio ciò che tu possiedi, ce lo scambiamo e ognuno torna a casa alleggerito col proprio bottino sotto il braccio. Senza quello sgradevole senso di colpa che ti sale dallo stomaco quando hai speso del denaro faticosamente guadagnato.
Detto tutto ciò, l’idea che qualcuno sia disposto ad alzare il culo, andare al supermercato, comprarmi una confezione della mia crema corpo preferita per avere in cambio un setacciafarina facilmente reperibile tre corsie più in là dello stesso supermercato va ancora oltre ogni mio potere immaginifico. Per capire più a fondo il fenomeno, questo weekend sono andata insieme alla mia collega nel cuore pulsante dell’attività scambista del gruppo: il raduno.
Praticamente, durante la settimana gli iscritti scelgono, contrattano, assegnano; il sabato pomeriggio s’incontrano e si scambiano gli oggetti. L’appuntamento è sempre nello stesso luogo, alla stessa ora. Lo sciame di persone, almeno 50, si presenta con borsoni, trolley, carrelli. I più organizzati si fanno prestare dallo zio una vecchia Panda, perché magari devono trasportare oggetti ingombranti.
Per rendersi riconoscibili agli altri, si appendono al collo un cartellino col nome. Si guardano in faccia, controllano il cartellino, si accertano di essersi riconosciuti. Alcuni si sorridono e si salutano con affetto, perché magari si sono già scambiati qualcosa in passato. Sono già stati amanti, diciamo. L’operazione dura un’ora, e può essere faticosa e snervante. A tale scopo, i più previdenti si portano anche generi di conforto quali biscotti, sidro, termos di caffè. Tutti hanno la loro lista, che spuntano man mano che le transazioni sono completate. Verso la fine, c’è finalmente tempo per dirsi due parole, scambiarsi feedback sulla bontà degli oggetti aggiudicati e gettare le basi per trattative future.
Ovviamente io sono stata zitta, dietro la mia collega, a origliare e fotografare senza dare nell’occhio. Non volevo che qualcuno mi notasse (e credo di esserci riuscita, nonostante la mia abbacinante bellezza) e mi intimasse di andarmene, perché mi avevano anticipato che vige nel gruppo un regolamento da Fight Club. La fauna era composta prevalentemente di donne: alcune di mezza età, parecchie mie coetanee, altre addirittura più giovani. Quasi tutte vestite in uno stile che definirei gattara-geek. Tratto comune, oltre alle pettinature molto discutibili, la determinazione e la scientificità con cui svolgevano il loro compito.
Clima concitato, sguardi vigili, movimenti rapidi, qualche accenno di catfight. L’ansia di possesso che c’era nei loro occhi era assolutamente identica a quella di qualsiasi donna che si trovi da Zara il primo giorno dei saldi invernali. A completare il quadretto, un sparuto gruppo di fidanzati annoiati.
Niente, mi sa tanto che il baratto è solo una forma -più povera e d’antan- del caro vecchio shopping compulsivo.