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Sciamani del terzo millennio

Creato il 27 agosto 2010 da Fabry2010

La religione del peyote

Di Mara Macrì

Presidente ACTA POPULI – Istituto di Comunicazione Ricerca e Giornalismo www.actapopuli.net

Abitatori indigeni dell’America così furono chiamati da Cristoforo Colombo che credeva di aver scoperto una parte dell’India Asiatica. Gli indiani d’America, detti anche Pellirossa per il color rame della loro pelle. Nelle grandi enciclopedie vengono definiti affini alla razza mongolica, con capelli neri e folti, barba rada, fronte bassa, cranio mesocefalo…

Coraggiosi, tenaci, fedeli ma pigri e crudeli (Diz. Enc. Mod.. Ed. Labor) nella realtà un grande popolo in estinzione ricco di un patrimonio di saggezza, spiritualità e conoscenza fitoterapica che ribalta la mentalità acquisita dai films western che collocano i “bianchi” nella categoria dei buoni e definiscono i pellirossa selvaggi tagliatori di gole. Ma chiunque approdi ad Ovest, dove vive l’America “pellerossa” concentrata in riserve non più grandi della nostra Calabria o della metà del Lazio, può scoprire la verità e l’incanto racchiusi in luoghi lontani dalla cultura occidentale e materialistica, dove antiche comunità Navajo, Yaqui, Kiowa, Apache ed altri nuclei meno numerosi cercano di sopravvivere lungo i sentieri del sacro e dei culti ancestrali. Eppure, ancor oggi, in un mistico silenzio mito e storia si fondono con la religione e la medicina indiana – erbe medicinali, trance, massaggi terapeutici e canti – riaffermano nonostante tutto l’antico culto del Peyote sacro, la pianta utilizzata per secoli dalle popolazioni mesoamericane per cerimoniali religiosi, mistico-visionari, alimentari e curativi.
Il peyote è una pianta cactacea messicana dal colore grigio-verde contenente diversi alcaloidi, tra cui la mescalina che provoca allucinazioni, ma in grado di curare diverse malattie. Questo insieme ad altre sostanze vegetali rappresenta la “borsa dei medicinali” della farmacopea indigena. Sembra che circa la metà delle popolazioni amerindie usino il peyote ed altri rimedi vegetali (pervinca, jojoba, achilea, sassofrasso, salice ecc.) efficaci ed approvati sul piano scientifico per curare malattie inguaribili. Ciò deriva dalla credenza che i vegetali siano abitati da forze spirituali ed energie vitali che lavorano sui livelli profondi della psiche, inscindibile non solo dal corpo ma anche dall’ambiente, dal gruppo sociale, dai valori e dai canoni cultural-religiosi. In tal modo si cura il corpo cercandone l’anima.

Una grande varietà di erbe mediche viene usata per la composizione di 170 medicine elencate anche nella Pharmacopeia e nel National Formulary degli USA ed alcuni antropologi, da me intervistati, hanno calcolato che in certe aree geografiche i nativi d’America conoscono 88 piante per curare il raffreddore, 113 per abbassare la febbre, 101 per cicatrizzare le ferite, 41 per calmare i nervi, 68 che funzionano da lassativi ed altre curano dolori di stomaco ed emicranie. Il peyote, invece, è in grado di far retrocedere 18 ceppi del batterio Staphylococcus Aureus – resistenti anche alla penicillina – ed ogni malattia dell’apparato respiratorio poiché contiene una sostanza (peyocactin) estratta dalla pianta, che svolge un’azione molto simile a quella dell’antibiotico.

E mentre i primi missionari definivano diabolica questa radice, inserita ufficialmente nella farmacopea del Messico, si racconta che i Tarahumara attraverso un impasto polverizzato gli curavano i morsi di serpenti, le artriti, malattie di ogni genere e bruciature. I pionieri della fede cristianaarrivati per salvare le anime dei “selvaggi” venivano salvati da loro con erbe, carezze e baci.

Infatti, per gli indiani la malattia rappresenta il linguaggio dello spirito e la sofferenza può essere compresa solo attraverso la saggezza, tanto che l’aspetto medico-terapeutico poggia sulla sanità del corpo e dello spirito. In pratica quando si rompe l’equilibrio e si scatena la malattia i nativi intervengono, non solo con il farmaco ma anche con il cibo, le erbe, le parole, i canti, i gesti, gli aghi, i massaggi, i baci, le risate e le carezze.

E’ notizia diffusa che la risata aumenti sia le difese immunitarie che le sostanze presenti nell’encefalo, mentre i baci e le carezze sembra che svolgano un’azione analgesica simile alla morfina provocando un aumento di corticosteroidi (ormoni che fungono da regolatori del sonno-veglia e dell’equilibrio elettrolitico e sessuale); così come è vero che i ritmi frenetici della vita e le disarmonie affettive e consumistiche conducono verso alterazioni ed anomalie dell’apparato neurofisiologico.

L’universo indiano comprende il tutto nella sua globalità, e per tutto s’intende l’uomo cellula inscindibile dall’universo, ed è in questo ambito che s’inserisce l’uomo medicina, l’uomo speciale che agisce a livello psichico, fisico, spirituale, magico e religioso. Pertanto la cura non consiste soltanto nella somministrazione della medicina, non è solo la pianta o l’uso di sostanze vegetali e minerali a guarire, è anche l’intervento dello sciamano-guaritore-sacerdote che assume su di sé un ruolo onnicomprensivo di sacerdote, medico, consigliere politico, cantore, psicologo e veggente.

La figura dell’uomo speciale ha funzioni differenti per le varie appartenenze. Tra gli Yuki, Pomo, Wiyot, Maidu della California settentrionale si trovano categorie di sciamani chiamati cantantioppure i succhianti. I primi diagnosticano con danze e fumate la malattia, i secondi s’incaricano di succhiare dal corpo le cause malefiche e gli spiriti maligni. Per esempio, la pratica della suzione da parte dell’uomomedicina tra gli Ojibwa, era una delle forme terapeutiche più diffuse per curare malattie resistenti ad altri trattamenti e per scacciare gli spiriti maligni.

Tuttavia, ancor oggi, il mezzo più potente – di curare, guarire, lenire – per tali specialisti rimane l’uso delle parole, delle formule apotropaiche, ritenute taumaturgiche. I nativi d’America nutrono un grande rispetto per la parola ed al valore che ad essa viene dato. La parola viene considerata creativa, guaritrice, sacra, così come è sacro il tempo interiore degli indiani che hanno un orologio biologicospirituale che spesso non coincide con il tempo esteriore. Quando camminano troppo velocemente si fermano e dicono:” stiamo andando troppo veloci, per questo abbiamo lasciato indietro le nostre anime. Dobbiamo aspettare che ci raggiungano”.

La religione indiana il culto la terra… la donna
Sono numerose le versioni sul mito del Peyote, ma ogni versione sia essa yaquì, kiowa, apache – fino all’esperienza personale di Quanah Parker capo dei Comanche che introdusse la religione-peyote tra la sua gente – rivela tre elementi fondamentali: la pianta allucinogena, la terra e la figura femminile. Il concetto di bellezza, per la donna-peyote, si realizza attraverso il “cactus divino” e la terra, e si sviluppa fondendosi con la spiritualità e la guerra.
Tramite un rituale, avviene la rinascita del singolo, degli esseri umani, del gruppo sociale e della loro guarigione in senso globale; è la donna che apprende per prima la verità, da una rivelazione. E dalla visione e l’ingerimento dei boccioli-peyote nascono i riti i quali, riaffermati dal nucleo riunito intorno al simbolo, danno vita ad una nuova religione.

La donna per gli Indiani d’America è la fondatrice del peyotismo ed eroina culturale, quindi, salvezza della sua gente, ed il Peyote viene connotato sessualmente al femminile anche se per i Lipan Apache e i Carrizo messicani vi è una propensione nel definire il peyote-maschio riferendosi ai diversi stadi di fioritura della pianta la quale presenta, inizialmente, somiglianze con i genitali femminili – fiori biancastri – che si trasformano in fiori rossicci e maschili.
L’attribuzione sessuale al peyote risale ad epoche remote ed è presente fra le comunità indios dell’area mesoamericana dove la pianta appare come divinità maschile, successivamente si diffonde anche tra le tribù nord-americane wichita e kiowa, e per loro la donna-peyote è un’entità divina femminile perché nasce ed appartiene alla Madre Terra, per questo la donna viene tenuta in grande considerazione nelle tribù. Considerazione che va ad inficiare il pensiero collettivo dei bianchi, nel quale lo status della donna indiana non andava oltre a quello di schiava “tuttofare” che poteva essere venduta e comprata, vista come focoso animale d’amore: in parole semplici la squaw.

La posizione della donna nella società determina il grado di civiltà di un popolo e non c’è dubbio che la situazione complessiva delle donne indiane risultava, all’epoca dei gravi conflitti, nettamente superiore a quella delle loro contemporanee sorelle bianche. Nelle società native la donna partecipava alle attività sociali, ai rituali ed alle cerimonie delle comunità, si curava delle tradizioni e della pesante economia domestica. Inoltre aveva poche proibizioni e tabù, godeva di una tale autonomia che in molte tribù erano nate associazioni femminili, anche per coloro che avevano partecipato alla guerra. In molte culture avevano ruoli importanti di sciamane, capo-clan – come le clanmothersle matrone del clan degli Irochesi (che ancora eleggono i capi) le quali partecipavano alla stipula dei trattati, distribuivano beni e raccolti, tanto che gli inglesi definirono la loro politica il governo irochese delle sottane; o addirittura erano guerriere e capi, vedi una delle mogli di Geronimo.

Ma il ruolo femminile nelle culture native tende a diversificarsi rispetto alle peculiarità etno-storiche, alla base economica, alle tradizioni socio-religiose, ed alla posizione geografica, infatti nelle aree del Sudovest (hopi,zuni, navajo) e in quelle del Sudest (cherokee, creek) le cui economie erano essenzialmente basate sull’agricoltura di popoli stanziali con tradizioni per lo più matriarcali, i ruoli femminili avevano una maggiore incidenza rispetto alle comunità nomadi e seminomadi delle grandi praterie dove la sopravvivenza dipendeva dalla caccia e dalla guerra; tra i lakota e i cheyenne veniva esaltato il protagonismo maschile dei guerrieri, che in qualche modo indeboliva la posizione e la prerogativa femminile pur tenendo conto dell’importanza che esse avevano. Anche nel Nordovest tra gli indiani pescatori della cultura del totem e del salmone, che avevano una società più strutturata, la posizione della donna era fondamentale: presso i Twiglit, per esempio, era la donna che aveva il timone e guidava la canoa di guerra.

Per concludere, la maggior parte delle società dei nativi americani era matrilineare e questo portava in primo piano il ruolo sociale, l’autorità ed il prestigio della figura femminile, soprattutto nel campo orale della trasmissione della cultura, della vita tribale e della distribuzione dei beni collettivi e gli uomini affermavano con orgoglio: “Non conta quanto siano dritte le frecce, né quanto impavidi i guerrieri; nessuna nazione sarà mai sconfitta finché i cuori delle donne sono sulla terra”.

Ai nostri giorni, a distanza di cinque secoli dalla frantumazione delle società indiane tradizionali, il panorama delle donne native americane è piuttosto complesso e si presenta sotto due aspetti. La maggior parte di loro è vittima dell’emarginazione socio-economica, del sessismo e del razzismo – in molti ospedali le donne vengono fatte abortire forzatamente per impedire che la popolazione si riproduca – una discriminazione criminale di cui si parla troppo poco. Molte altre, però, sono sul piede di guerra come attiviste in difesa dei diritti umani, civili, religiosi e territoriali delle loro comunità, per il miglioramento delle strutture abitative, scolastiche e sanitarie. E nel campo della cultura hanno assunto un ruolo di grande prestigio.

Scrittrici e poetesse, le figlie di Pocahontassono diventate punto di riferimento del vasto arcipelago internazionale attraverso le loro storie fatte, di lacerazioni e di straordinaria resistenza sia fisica che emotiva, dove il senso di appartenenza e d’indianità si fondono sul filo della coscienza femminile che tutto contiene.



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