Se in Europa i festival sostanzialmente tengono botta contro la crisi economica (record agli inglesi Reading e a Glastonbury con le sue 120mila presenze, 140mila al Primavera di Barcellona), da noi il calo oscilla tra il meno 25% dell’I-Days di Bologna (ad inizio settembre, con Arctic Monkeys) e il 50% del festival che si chiude oggi nella laguna veneziana con il concerto di Vasco Rossi.
Su Repubblica. Sbalorditivo, davvero. E la causa qual è?
Per Claudio Trotta di Barley Arts, già patron storico di Sonoria e oggi organizzatore del Flippaut, “l’idea del festival in questo paese non ha mai funzionato, a parte i casi del Rototom e di Italia Wave, che però era ad ingresso gratuito. I motivi sono semplici: mentalità conservatrice del pubblico, schiavo dell’artista preferito o dell’headliner; atteggiamento fighetto del popolo del rock in Italia che ha paura di vivere l’esperienza del festival, anche se questo prevede i disagi di una giornata di pioggia; e infine le location sbagliate, quasi sempre autodromi o spazi fuori mano. Per fare i numeri ci vorrebbero location con centralità geografica nella penisola, ben serviti e poi scelte di cast più centrate, senza sottostare all’obbligo del grande nome”.
Tutto vero? Diamo un’occhiata al programma dell’Heineken. Mettere insieme line-up così eterogenee, per non dire a culo (sorry, l’ho detto) necessita di una buona dose di impegno. A parte il concerto di Vasco, che poteva tranquillamente vivere di vita propria e non scomodare gli inutili supporters, troviamo un denominatore comune a Fabri Fibra, Verdena, Interpol, Elbow e Negramaro. Ma certo: suonano con strumenti musicali. L’atteggiamento fighetto del popolo del rock, in Italia, forse meriterebbe un’analisi diversa e maggiori competenze dagli addetti ai lavori, sempre che i suddetti addetti vogliano sopravvivere alla crisi economica, se non almeno alla crisi del mercato musicale. Consoliamoci svabando sulla line up del Reading e sul concilio ecumenico artistico in programma a Glastonbury. Beati i fighetti inglesi.