Paradiso amaro è un film adulto, quasi senile, diretto e interpretato da due artisti adulti, tra un po' senili pure loro, rivolto a un pubblico di altrettanti adulti che a un certo punto della vita hanno magari cominciato a fare bilanci. E come scrive Martin Amis - vado a memoria - uno non sa di essere vicino alla vecchiaia, fino a quando non comincia a pensarci su e si accorge di esserci dentro da un pezzo. La frase vale per il personaggio di Clooney, che prima di riprendere a occuparsi della sua famiglia si dimentica di averne una, salvo poi ritrovarsi in un mondo che non conosce, e anche per Alexander Payne, che fino a qualche anno fa era considerato uno dei nuovi autori del cinema americano (citato sempre in compagnia dei due Anderson) e ora che è tornato dopo sette anni di silenzio è invecchiato e giustamente non parla più da giovincello incazzoso come ai tempi di Election. In Paradiso amaro Payne non è ironico o caustico e non esprime quel vitalismo tenace che caratterizzava pure il pensionato signor Schmidt. In Paradiso amaro, Payne sembra rassegnato, quasi spaventato, dalla rozza normalità delle cose, dal deteriorarsi del mondo che circonda i suoi personaggi. In apparenza sembra svogliato, e il suo film senza energia, ma tutto è in sintonia con la luce abbacinante e priva di vita che circonda le Hawaii cementificate dall'America più borghesizzata. L'isola esotica che crediamo di conoscere, in Paradiso perduto è invece un entroterra di villette residenziali e un lungomare di casermoni di lusso: Payne lo filma con distanza, senza emozione, e nell'unico momento in cui potrebbe addentrarsi in un paesaggio noto, rigoglioso e naturale, lo tiene significativamente a distanza, lasciandolo nel cuore e nella memoria dei personaggi. Il paradiso amaro di cui parla il titolo italiano (pare scelto dallo stesso Payne, visto che l'originale The Descendants, Gli eredi, evidentemente non piaceva) è così un luogo socializzato e per questo umiliato: il paradiso vero, invece, quello che il nome Hawaii evoca e che i personaggi sono chiamati a difendere, nel film si vede solo da lontano, teatro di un ricordo e di una proiezione. Succede in una scena sola, l'unica veramente bella del film, ma grava su tutto il resto: come se per una volta, in tempi di memoria ricreata e condivisa, un regista avesse scelto di affrontare il presente e di raccontarlo nonostante la sua anonima insipienza.
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Paradiso amaro è un film adulto, quasi senile, diretto e interpretato da due artisti adulti, tra un po' senili pure loro, rivolto a un pubblico di altrettanti adulti che a un certo punto della vita hanno magari cominciato a fare bilanci. E come scrive Martin Amis - vado a memoria - uno non sa di essere vicino alla vecchiaia, fino a quando non comincia a pensarci su e si accorge di esserci dentro da un pezzo. La frase vale per il personaggio di Clooney, che prima di riprendere a occuparsi della sua famiglia si dimentica di averne una, salvo poi ritrovarsi in un mondo che non conosce, e anche per Alexander Payne, che fino a qualche anno fa era considerato uno dei nuovi autori del cinema americano (citato sempre in compagnia dei due Anderson) e ora che è tornato dopo sette anni di silenzio è invecchiato e giustamente non parla più da giovincello incazzoso come ai tempi di Election. In Paradiso amaro Payne non è ironico o caustico e non esprime quel vitalismo tenace che caratterizzava pure il pensionato signor Schmidt. In Paradiso amaro, Payne sembra rassegnato, quasi spaventato, dalla rozza normalità delle cose, dal deteriorarsi del mondo che circonda i suoi personaggi. In apparenza sembra svogliato, e il suo film senza energia, ma tutto è in sintonia con la luce abbacinante e priva di vita che circonda le Hawaii cementificate dall'America più borghesizzata. L'isola esotica che crediamo di conoscere, in Paradiso perduto è invece un entroterra di villette residenziali e un lungomare di casermoni di lusso: Payne lo filma con distanza, senza emozione, e nell'unico momento in cui potrebbe addentrarsi in un paesaggio noto, rigoglioso e naturale, lo tiene significativamente a distanza, lasciandolo nel cuore e nella memoria dei personaggi. Il paradiso amaro di cui parla il titolo italiano (pare scelto dallo stesso Payne, visto che l'originale The Descendants, Gli eredi, evidentemente non piaceva) è così un luogo socializzato e per questo umiliato: il paradiso vero, invece, quello che il nome Hawaii evoca e che i personaggi sono chiamati a difendere, nel film si vede solo da lontano, teatro di un ricordo e di una proiezione. Succede in una scena sola, l'unica veramente bella del film, ma grava su tutto il resto: come se per una volta, in tempi di memoria ricreata e condivisa, un regista avesse scelto di affrontare il presente e di raccontarlo nonostante la sua anonima insipienza.
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