Due sere fa a cena si parlava di scrittori per scrittori e di scrittori per lettori, ossia di autori che nelle loro opere sembrano rivolgersi ad altri scrittori e che all’istinto antepongono la tecnica e il controllo, e di autori dominati invece da una natura generosa e profondamente affabulatoria. Eravamo più o meno d’accordo sull’esistenza delle due categorie (con tutte le sfumature del caso), non eravamo affatto d’accordo sui nomi da ascrivere a ciascuna categoria. Per esempio c’è stata una divergenza sul nome di Calvino che, per quanto mi riguarda, è uno scrittore per scrittori, ma che altri annoveravano nella seconda categoria, mentre eravamo più o meno concordi su Proust, Joyce e Svevo come campioni degli scrittori per scrittori. Allora ho cercato di chiarire meglio il concetto facendo un esempio tratto dalla storia dell’arte, e ho sostenuto che Mondrian è pittore per pittori mentre Van Gogh è pittore per tutti. Ho anche provato a dire che la questione principale non è tanto la ricerca, ossia il peso che un determinato autore attribuisce allo studio e alla sperimentazione, quanto il pubblico dei lettori a cui, consciamente o inconsciamente, si rivolge. A quel punto però è stato necessario chiarire che il pubblico dei lettori non rimane uguale a se stesso, ma muta col passare delle epoche, così la società dei lettori al tempo di Proust non è paragonabile alla società dei lettori americani degli anni Novanta con cui si confrontava David Foster Wallace all’uscita di Infinite Jest, né alla società vittoriana al tempo in cui Dickens faceva uscire Oliver Twist a puntate su Bentley’s Miscellany. La questione dunque va affrontata da una prospettiva simmetrica ma è tuttavia irrisolvibile, e come altre questioni dello stesso genere resta un puro gioco speculativo che riguarda uno dei più interessanti misteri della letteratura: il lettore ideale, la singola persona ipotetica che ciascun autore ha in testa quando vive l’istante più segreto e appartato della sua vita artistica, quando scrive.
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