Vietato incontrarsi di Guido Seborga
Bordighera alta con le case antiche lavate dal vento risplende nella tersa giornata invernale. Le palme sono piene di vento. Gli ulivi ritorti. Verso sera l’atmosfera s’arrossa, il ponente si calma come sconfitto dalla nascente notte. Dallo spiazzo aperto sul mare e sull’ampia prospettiva della costa stretti carruggi salgono alla chiesa con gradini bassi e lunghi di mattoni rossi, la chiesa è in una piazzetta stretta da case. Un carruggio era percorso da un uomo, trent’anni poteva avere, piccolo di statura, col volto pallido e gli occhi neri febbrili, vestito di nero; sembrava particolarmente eccitato, come dovesse compiere qualcosa di eccezionale. Finiti i lavori quotidiani i coltivatori stavano rientrando alle loro case, abbandonando le serre sulle colline, e le fasce coltivate sul terreno arido e pietroso. I pescatori erano già scesi al mare, dove si accendevano le prime lampare.
L’uomo in questione si chiamava Gerolamo Seminara, aveva girovagato tutto il giorno sulla strada dei colli, non si capiva se per cercare qualcuno o per fare perdere le sue tracce. I contadini che lo videro s’erano chiesti: «Forse un altro calabrotto che va in cerca di guai?»
Seminara non cercava un ligure. Le liti più accese nascono tra calabresi, qui tanto numerosi, e riguardano i vecchi riti di questo popolo fiero e tanto ombroso, legato a non poche difficoltà di vita, e all’ignavia di molte leggi e abitudini, questa gente troppo disposta a rovinarsi per cose secondo noi incomprensibili.
Seminara stava percorrendo l’ultimo tratto che dal carruggio porta in piazza, si accendevano le prime luci elettriche quando il giorno non era ancora completamente caduto; di fronte alle botteghine del paese e alle osterie i paesani chiacchieravano fumandosi una nazionale e bevendosi un gotto di buon vino rossese. Ma Seminara da giorni e notti stava cercando un suo vecchio nemico di Reggio Calabria, un certo Rosario Calipa, uomo dal passato torbido, accusato di rapine a mano armata, che da tempo era pure lui venuto a vivere nella zona; e si diceva che a volte compariva nelle bettole di Bordighera alta per bere e giocare alle carte. E Seminara sicuramente sperava di fargli fare un gioco di carte con il morto.
Il tempo passava e Seminara dava segni d’impazienza, fumò una sigaretta, e poi altre sigarette, entrò da Romano per bersi del vino, e continuava ad attendere ostinatamente, tutti ormai l’avevano visto e notato.
Ma Calipa non compariva; e Seminara comparve molte sere; si sedeva a volte sugli scalini della chiesa, ad attendere cocciuto e inflessibile, l’osteria era proprio di fianco, così ne controllava facilmente l’ingresso, ma nessuno giungeva.
La polizia che tesse spesso invisibile trame, visti quegli armeggi, cominciò ad occuparsi del nostro Seminara, per capire quali potessero essere le sue intenzioni, e alla fine ciò peggiorò anche la posizione del Calipa, che doveva già rispondere di alcuni reati alla questura di Reggio. Per qualche sera Seminara non fu più visto; poi ricomparve insistentemente.
La sua presenza finì per irritare i bordigotti forse timorosi che potessero nascere guai; in questa stessa piazza fu già ammazzato un uomo, e il ricordo è ancora dolente, vivo.
Un giovane bordigotto, chiamato da tutti il “bruto”, alto e di spalle larghe, quella sera doveva aver bevuto più del solito, e sentiva così aumentare la sua forza, che del resto si sapeva superiore al comune; ebbe voglia di provocare, si avvicinò al Seminara, e gli domandò: «Ehi calabrotto, cosa fai da queste parti, da dove sei piovuto?»
«Mi ha portato il ponente…» rispose lui.
«È vento forte, pericoloso il ponente, l’hai imparato?»
«A me non fa paura questo vento.»
«Io penso invece che potrebbe anche farti paura. E bada a quello che fai… capito… È bene che tu scivoli via!»
Sentendosi offeso da quell’invito perentorio di andarsene, Seminara con mossa rapida estrasse il coltello, si fermò un attimo: «Da uomo a uomo» disse.
Il “bruto” evitò il colpo, era un buon pugile, e lo colpì prontamente, anche con il famoso calcio in faccia, il coltello era caduto, allora per il “bruto” fu un gioco da ragazzo schiacciargli il naso a pugni, rompergli un labbro, Seminara era intontito, ma cercava di riafferrare il coltello. Vennero liguri e calabresi, e riuscirono a fermarli, costringendoli alla ragione. Il “bruto” era già disposto a perdonare, più tenace Seminara pareva che non volesse ascoltare nessuno e neppure le parole conciliatrici dei suoi compaesani, che, lavorando su quella terra, non volevano grane coi bordigotti, ma vivere in pace, rispettando e facendosi rispettare. Seminara odiava soprattutto Calipa, del “bruto” in fondo non gliene importava molto. Dopo l’incidente tra liguri e calabresi era quasi nata una nuova amicizia. Ma una telefonata misteriosa (nessuno seppe mai chi l’aveva fatta) avvertì la polizia di quanto era avvenuto, e il coltello fu la prova lampante dell’aggressione. Fermato e arrestato si trovarono sul conto del Seminara anche altre storie poco pulite, qualche guaio con la polizia lo ebbe anche il “bruto”; ma per Seminara ci doveva essere un processo. Al maresciallo che lo aveva interrogato Seminara aveva detto: «Noi coi liguri vogliamo vivere in pace, ma ella non sa quanto male mi ha fatto Calipa». Il motivo di tanto rancore poteva essere una denuncia che il Calipa aveva presentato alla prefettura di Reggio contro Seminara.
Sanremo la dolce cittadina fiorita e gioiosa ha una tetra prigione, Santa Tecla, vien chiamata. Ora i due che volevano incontrarsi sono chiusi nella stessa prigione, in due celle vicine, possono sentirsi camminare, possono insultarsi ad alta voce, ma è vietato incontrarsi, sono entrambi a disposizione dell’autorità giudiziaria. È probabile che si rivedranno solo quando, scontate le condanne in corso, potranno nuovamente essere liberi cittadini. È triste pensare che forse si cercheranno di nuovo, forse verrà fuori il morto, forse il vivo andrà di nuovo in prigione, e per tutta la vita. È triste sapere che questa possibilità esiste. Ma non si potrebbe convincerli a desistere? Non si potrebbe farli diventare, anche loro, un poco più cristiani?
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Nascita del povero di Guido Seborga
Nel vecchio sobborgo del paese di mare, incontri bimbi dalla pelle brunita, che giocano sotto le arcate di case rosse tra ciuffi di palma e rami contorti e dolenti d’ulivi. I bimbi scendono in riva al mare e nelle ore afose si bagnano tra gli scogli facendo poderose nuotate e infiniti tuffi. I bimbi a sera stanchi morti s’addormono sulle ginocchia delle madri o negli angoli di quelle piccole stanze logorate dal tempo con tappezzerie stinte e oleografie che rappresentano scene di pesca. La povertà di questi luoghi non la scopri subito, ammantata com’è di felicità naturale che vorrebbe giustificarla di fronte al mondo; ma è povertà egualmente aumentata in questi anni di guerra.
Un giorno Carlo mi aveva chiesto: «Devo sposarmi?». Ero rimasto stupito da simile domanda, non dal fatto che me l’avesse posta, perché eravamo stati compagni di scuola e potevamo usarci ogni famigliarità; ma ero stupito che un uomo potesse porsi simile domanda: «Devo sposarmi?»
Non avevo mai pensato ad una cosa simile e mi pareva che se ciò dovesse accadere, era bene che avvenisse spontaneamente; dopo si poteva arrivare a pentirsi lo stesso, anche se ci avevamo pensato per dei mesi.
Non vedevo Carlo da due anni, ché ero stato lontano dal paese, assorbito dalla vita di città. Sapevo che Carlo aveva un carattere mutevole; così non avrei saputo immaginare in quale condizione lo avrei rivisto.
Avevo preso il diploma da maestro; e adesso passavo le mie ore ad insegnare ai ragazzi per un magro stipendio. Carlo faceva l’operaio; ma si divertiva anche a scrivere dei versi che mi dava da leggere e s’era innamorato dei romanzi russi. Carlo non aveva troppo voglia di lavorare; se lavorava era perché non poteva farne a meno. Volevo trovarlo adesso ma non sapevo dove scovarlo, perché se s’era proprio sposato c’era da pensare che avesse mutato abitazione. Andai da Dria, lattoniere nostro comune conoscente, che mi confermò che Carlo s’era sposato, che lavorava al municipio come operaio dell’Acquedotto, e mi diede l’indirizzo. “Andrò da lui domenica dopo pranzo”, decisi.
Una casetta attorniata da un piccolo orto, un fico verde e lucente, l’aria gaia e confortevole. Appena arrivato chiamai ad alta voce: «Carlo». S’aprì una finestra all’ultimo piano, e questi comparve in maniche di camicia, abbronzato in volto, gli occhi neri. Sembrava molto contento di rivedermi. «Finalmente sei tornato», esclamò «finalmente ti rivediamo; vengo subito ad aprirti». Dopo due minuti me lo trovai di fronte. Ci abbracciammo. «So che ti sei sposato», gli dissi. «Sì», mi rispose. E mi pareva contento.
Salimmo nel suo appartamento, mobili vecchi, pochi arnesi da cucina e nelle cose, nel letto, nei fornelli un senso di diffusa miseria. Giunse sua moglie. M’ero immaginato che Carlo colpito dall’amore nel sangue, si fosse sposato una di quelle ragazze brune e scintillanti, dagli occhi azzurri, che nascono come fiori di queste terre aspre. Trovai invece una donnetta magra, con il volto già pieno di precoci rughe, soprattutto sulla fronte. Era incinta, il ventre gonfio spiccava sinistramente sulla sua magrezza e sulle gambe sottili. Stretto alla testa aveva un fazzoletto colorato e sporco. Fui così deluso che non seppi più cosa dire. Carlo s’accorse del mio stupore? Non saprei dirlo.
Eravamo seduti attorno al tavolo e tosto accadde una penosa scena, ché volevano offrirmi qualcosa e non sapevano cosa. Vantai la bontà delle limonate, perché ero assettato: la moglie mi preparò con gesti lenti e stanchi la bevanda. Mi sentivo a disagio, non sapevo più cosa dire al mio vecchio compagno d’infanzia, che s’era sposato. Mi ritornò in mente la sua domanda “Devo sposarmi?” e capii che adesso avrei saputo rispondergli.
Ma ormai era troppo tardi; sarebbe nato il bimbo povero, che sarebbe diventato lo schiavo della società corrotta, perché nessuno avrebbe potuto dargli un’esistenza diversa; non so, per esempio nessuno avrebbe potuto farlo studiare per permettergli di uscire dalla sua triste condizione.
Il pensiero della creatura che stava per nascere mi rimise nell’ambiente con simpatia, vidi la donna in modo diverso, superata la delusione che non fosse bella e giovane, come avrei voluto la compagna del mio amico. E pensai quasi con gioia che avrei dato lezioni al nascituro per fargli giustizia contro la società forcaiola.
In quel momento la madre ebbe un gesto delicato: si sfiorò con la mano il ventre come già volesse proteggere il figlio. Il tono di smarrimento nella vecchia stanza non era del tutto passato. Carlo ed io non sapevamo cosa dirci, ci guardavamo stupiti, se il mondo era così diverso da come lo avevamo visto da bimbi, quando andavamo a scuola ed eravamo eguali a quei monelli di cui ho parlato in principio di queste pagine.
«Siamo molto poveri!» esclamò Carlo.
Non trovai parole per consolarlo; la povertà loro sarebbe sempre aumentata. Continuavamo a guardarci tutti e tre silenziosi e la madre sfiorava il suo ventre con una lunga carezza, con un gesto delicato della sua mano magra. Sentivo dentro di me il peso della mia remota stanchezza, questa vita triste che soltanto di quando in quando s’illumina negli strani bagliori della fantasia.
«Ora me ne devo andare» esclamai.
Fui meravigliato nel notare che la mia voce era fresca. Come se inconsciamente avessi parlato pensando che mi sarei ritrovato tra le pietre ed il cielo azzurro.
«Arrivederci» disse Carlo. E mi porse la mano. Si chinò a baciare sua moglie in fronte come per farmi partecipe della sua tenerezza e con leggerezza le tastò il ventre.
«Va a giorni», disse, «non dobbiamo temere; un valido appoggio sarà questo figlio, un valido appoggio. Lascia che cresca e vedrai.»
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NOTE
(1) Cfr. Odori e silenzi del mare di Sanguineti – Estati a Bordighera, Seborga, Artaud e la caduta sull’Appennino, intervista del 1995 di Ermanno M. Crestana reperibile su http://www.liguri.net/lepietremare/sang.htm: “Fu uno dei miei primi punti di riferimento culturale e mi fece conoscere Antonin Artaud, di cui mi prestò ‘Héliogabale’”.
(2) Cfr. Lorenza Trucchi, Testimonianza, in 1957-2004. Cinquant’anni d’arte italiana nelle cronache di Lorenza Trucchi, Marsilio, Venezia 2009, p. 13 dove, a proposito dell’estate 1945, l’autrice ricorda: “Leggevo soprattutto poesia (Campana e Montale erano i miei idoli) e filosofia: alternavo l’ostico L’être et le néant di Sartre, che l’amico Guido Seborga mi aveva portato dalla Francia, all’Estetica di Croce”.
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Guido Seborga
Bio
Guido Hess (Torino 1909-1990) trascorse la sua giovinezza in giro per l’Europa e combatté per la Liberazione in Liguria e in Piemonte. Per firmare i suoi primi romanzi adottò lo pseudonimo di Seborga prendendolo a prestito da un paese dell’entroterra di ponente. Giornalista, poeta, romanziere e poi pittore e scultore, a Bordighera Seborga fece conoscere Artaud a Edoardo Sanguineti (1) e Sartre alla critica d’arte Lorenza Trucchi (2). Fu tra gli organizzatori della sezione Narrativa dei Premi Cinque Bettole, dove Francesco Biamonti esordì nel 1956, vincendo, e accompagnò poi alcuni giovani della zona nell’esperienza dell’Unione Culturale Democratica, un’associazione il cui nome venne suggerito da Seborga stesso, già tra i fondatori dell’Unione Culturale di Torino.
I due testi inediti che presentiamo sono come due “cronache” della vita nel “far west” del ponente nel secondo dopoguerra, e rappresentano solo una delle molte vene dell’autore.