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Scritture dal mondo arabo: Nagib Mahfuz, Per le strade del Cairo

Creato il 14 settembre 2010 da Fabry2010

Scritture dal mondo arabo: Nagib Mahfuz, Per le strade del Cairo

«Per le strade del Cairo», tradito dalla traduzione.

Di Maria Elena Paniconi

Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura 1988, presenta ai lettori e ai critici un duplice volto. Il primo è quello di romanziere a suo modo «regionale», legato all’ambiente urbano e in particolare alla pancia più impermeabile – almeno in apparenza – ai venti della modernizzazione, quella zona del Cairo fatimide in cui l’autore trascorse l’infanzia. Recensendo uno dei tanti romanzi cittadini di Mahfuz, L’epopea dei harafish del 1977, J.M. Coetzee sottolinea come l’immaginario mahfuziano si nutra di una dialettica interna alla città stessa: «I romanzi realisti di Mahfuz si concentrano sui ceti urbani. Non c’è traccia di contadini né di campagna … Se qualcosa viene contrapposto alla città, è la città stessa in una fase precedente del suo sviluppo, non il villaggio». Così al Cairo moderno si contrappone quello fatimide, al quartiere di Sakakini si contrappone quello di Jamaliyya, in un chiaroscuro di ambientazioni che si riflette poi nelle traiettorie dei personaggi, nelle loro lotte, nelle fughe, nelle ascese e nelle perdizioni talvolta annunciate.

Ecco allora apparire l’altro volto di Mahfuz, quello del narratore universale, in grado di tradurre in una prosa paziente, ricca di dettagli e di infinte sfumature psicologiche, il percorso dell’individuo nel mondo, in un’era che si vuole moderna. Si parla qui di un mondo arabo attraversato da movimenti di rinascita e da nazionalismi, un mondo in cui il percorso del singolo è solitamente osteggiato dall’ordine tradizionale delle cose. Principio e fine (1949), ad esempio, narra le vicende di una famiglia piccolo borghese in gravi difficoltà economiche che tuttavia sostiene con ogni mezzo l’ascesa di un giovane al grado di ufficiale. Nonostante il tentativo di raggiungere una «decorosa rispettabilità» sia condannato sin dall’inizio a un sicuro fallimento, la tensione che anima il protagonista ci consegna un’immagine essenziale di modernità. E chi, come Amitav Ghosh in Circostanze incendiarie, ha lamentato che una tale etica della rispettabilità «ha ben poco a che fare con l’Egitto» dimentica che la questione della modernità, con i suoi modelli culturali, sociali, politici, è stata ed è fondamentale nella storia del mondo arabo. In particolare, Mahfuz ha prescelto quale icona dell’individuo impegnato a entrare nel mondo in via di modernizzazione, per poi farsi strada in esso, la figura del funzionario statale. Su questo soggetto diligente, tenace, spesso opaco, si costruisce buona parte della monumentale opera di mediazione letteraria mahfuziana, grazie alla quale la forma romanzo potrà diffondersi dal Marocco fino all’Iraq, incontrando un pubblico sempre più vasto, pur nei limiti oggettivi imposti dalla sempre troppo scarsa alfabetizzazione.

Il romanzo recentemente proposto da Newton Compton, Per le strade del Cairo (tit. or. Khan al-Khalili, 1946) vede per l’appunto come protagonista un funzionario governativo, Ahmad Akif. Di indole introversa, egli ha trascorso la giovinezza inseguendo velleità intellettuali, leggendo avidamente i testi della tradizione letteraria, religiosa, filosofica araba e maturando nella frustrazione, in seguito a vari delusioni amorose, vaghi sentimenti di misoginia. Siamo nel 1942, in piena seconda guerra mondiale e gli Akif si trasferiscono dal moderno quartiere di Sakakini alla zona tradizionale di Khan al-Khalili per sfuggire alle incursioni aeree. Paradossalmente, proprio all’ombra dei minareti di questo quartiere tradizionale Ahmad incontra un avvocato intriso di letture occidentali con il quale ingaggiare interminabili discussioni. Inizia a cullare anche il sogno di un amore di mezza età, instaurando lentamente un dialogo cifrato, fatto di sguardi scambiati dalla finestra, con la giovanissima figlia dei vicini.
La scena viene sconvolta dall’arrivo, dopo un periodo di lavoro nel sud del paese, del fratello più giovane, Rushdi, amatissimo «protetto» del maggiore Ahmad. Travolgente viveur, intraprendente in fatto di ragazze, anche per Rushdi lo spostamento (nel suo caso dal Sud alla capitale) sembra prefigurare un radicale cambiamento di vita. Ma nella concatenazione degli eventi che segue il suo arrivo, con la Storia, Marx e Nietzsche a fare da sfondo alle complesse relazioni fraterne e familiari, si profila, cupa e inesorabile, la tragedia nella forma della tubercolosi che si abbatte sul giovane. Il romanzo si chiude con la partenza, da parte degli Akif, da Khan al-Khalili. Il lettore verrà certamente affascinato dalla storia forte, concepita in maniera tradizionale eppure straordinariamente coinvolgente, come sempre accade con Mahfuz.
Tuttavia, la scelta di proporre una traduzione dall’inglese e non dall’originale arabo presenta vari problemi, il primo dei quali riguarda la posizione simbolica dell’autore, che è da considerarsi parte del canone internazionale. E allora, davvero non ci si spiega perché non si sia tradotto direttamente il testo arabo (tradurremmo mai un romanzo di Herta Müller dall’inglese?). Nello specifico, inoltre, il decisamente troppo «trasparente» traduttore sceglie di lasciare in lingua inglese gran parte dei toponimi presenti nel romanzo. Si legge, ad esempio, che Ahmad Akif lascia il caffè Zahra tra botteghe, esalazioni di tabacco aromatizzato e urla di camerieri, per raggiungere la New Road, dove una graziosa ebrea gli proporrà di fare una passeggiata per Abbas Street.
La stonatura è paralizzante. Perché poi sostituire con Per le strade del Cairo il titolo originale Khan al Khalili, che è (come spesso accade nella produzione mahfuziana, pensiamo a Il vicolo del mortaio) un toponimo? Simili scelte non possono che cancellare i punti di riferimento, gli snodi, i fili che formano la tela grezza sulla quale si imbastisce il racconto. Si rompono le dialettiche spazio-temporali interne al narrato che costituiscono la cifra del romanzo. Chi ha avuto modo di apprezzare Mahfuz, il suo senso raffinatissimo dello spazio, la lavorazione delle psicologie, dovrà qui dotarsi di una buona dose di fantasia, e forse di una cartina dettagliata e fedele al tessuto urbano, per ricostruire quel senso che, a seguito della non-traduzione, rischia paradossalmente di andare smarrito, o stravolto, nell’intrigo confuso delle strade del Cairo.

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[già in Il Manifesto, 29 luglio 2010]

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