Quando si parla di descrivere la realtà, si immagina che se ne debba fare un calco, il più possibile fedele. Ma le cose sono un poco più complicate di così.
Perché è dimostrato direi quasi scientificamente che se provo a piazzare la realtà di un episodio nella pagina, non ci sta. Lo so:
“Ma è andata proprio così”
Me ne rendo conto. Ma purtroppo (o meglio: per fortuna) scrivere richiede anche la capacità di riordinare la realtà.
“Ehi, ehi, ehi. Ma qui a che gioco giochiamo. L’autore deve essere obiettivo e…”
Se a questo punto senti il suono del russare, sono io.
Autore obiettivo? Non scherziamo. Se un autore è obiettivo non sa fare il proprio lavoro. A nessuno si può chiedere di essere obiettivo, ma bravo, quello sì. E siccome il talento è visto come fumo negli occhi perché incrina l’ideologia dell’omologazione, si passa al contrattacco affermando che l’autore non è obiettivo.
Vale a dire: non è utile al modo di pensare dominante.
Meno male.
Chi scrive e ha la fortuna di possedere del talento (sono in pochi quindi), osserva la realtà, quindi fa una scelta. Non può limitarsi a riprodurre quello che vede, perché allora non scrive.
Se scrive, osserva, e se osserva, sceglie.
E la scelta probabilmente migliore è quella che punta verso aspetti inquietanti. A volte tali aspetti possono essere condizioni estreme, oppure in apparenza molto “quotidiane”. Ma tutte hanno un punto in comune: ricordano a chi vuole ascoltare che la condizione dell’essere umano è finita. Soggetta al fallimento.
Dickens, Tolstoj e Dostoevskij quello ci raccontano: siamo finiti.