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Scriversi la vita

Creato il 10 aprile 2011 da Fabry2010

L’aveva detto Jung che la funzione immaginativa è una sorgente originaria della psiche, e serve a impattare, a tamponare, a rilanciare sempre nuove scommesse alla sfida che l’esistenza si assume sull’incomprensibilità dell’angoscia. E, a pensarci bene, appare ovvio che ogni azione creativa sia terapeutica; e, d’altra parte, che anche ogni azione terapeutica debba contenere un quid di creatività. Siamo nati per inventare, siamo macchine da immagini.
I dati di fatto che creano angoscia sono la morte, il dolore, la separazione, l’impermanenza: e allora, fin dalle origini, l’essere umano immagina, inventa, tenta di darsene spiegazione, comincia a esprimere, e poi, sulla base di quanto emerge alla coscienza, a incastellare ritualità, a fondare tradizioni. A tale funzione è delegata una parte magnifica della mente, quella che agisce nei sogni e nelle libere associazioni.


Un magma originario irrinunciabile, una miniera alle cui cave va ad attingere materia chi ha desiderio di scrivere (perché qui voglio parlare della scrittura: altrimenti ci starebbero a ugual diritto pittura, musica, e le altre sorelle arti).
Ma la scrittura ha anche di suo, peculiare, un inscindibile rapporto con la memoria. Scrivere infatti in gran parte è ricordare, è mettere giù in parola grafica quello che si era affacciato alla mente come fiotto mnestico, parola verbale o immagine da verbalizzare che fosse: per fissare su carta questo nuovo visitatore, e insieme per scoprirlo. Perché – e questa è l’idea che voglio sostenere – scrivere è un atto euristico. Ossia, è qualcosa di più che tradurre in parola un pensiero o un ricordo: scrivendo si scava, si scopre, si arriva a zone di verità e di sé che prima di mettersi al foglio o alla tastiera rimanevano occulte.
Le rivelazioni che scaturiscono dallo scrivere hanno effetti dirompenti quando si tratta di estrarre minerali preziosi dalla propria vita e dalla propria memoria. Perché si va a cozzare con l’indicibile, con quello che non abbiamo mai detto, quello che non abbiamo mai ricordato. E’ conflitto duro, sono istanze interiori come pietre focaie, la liberazione dei contenuti e le esplosioni che ne conseguono.
“Non mi ricordo niente…”
“Non importa, mettiti tranquillo e scrivi”.
Si moltiplicano i corsi di scrittura creativa, e, ramificazione di questi, i corsi di scrittura autobiografica. I tempi, lo sappiamo, non sono un granché: molte persone soffrono, quasi tutte, e a quelle più consapevoli viene voglia e urgenza di ritrovare autenticità e sapere profondo, di strapparsi di dosso le maglie soffocanti dell’apparenza e della superficialità.
La scrittura autobiografica sembra rispecchiare tutte le esigenze indicate: quella euristica e quella terapeutica, quella espressiva e quella artistica. Perché, è chiaro, un passo dopo l’espressione viene la comunicazione, e un passo dopo questa vi è la possibilità di scrivere qualcosa di bello, di godibile da altri, qualcosa che può uscire da sé e diventare un patrimonio comune emozionante.
Quindi la scrittura del memoir, come si tende a dire oggi, indicando con memoir una particolare sfumatura dell’autobiografismo, più legata alla memoria che al ricordo, all’emozione connessa a un fatto che al fatto stesso – ma sono sfumature, appunto – ha un piede calcato nella psiche e l’altro nella ricerca; una mano protesa a ricevere e l’altra a offrire.
Lo seppe nel IV secolo Agostino, e poi lo ritrovarono in molti, a macchia di leopardo, fino all’esplosione settecentesca della moda delle memorie. Così definisce Philippe Lejeune il genere autobiografico: «Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria vita mettendo l’accento sulla vita individuale e in particolare sulla storia della sua personalità». Nella secchezza della definizione formale, il critico francese coglie nel segno e indica i confini precisi al di qua e al di là dei quali non è legittimo parlare di autobiografia. Io conduco ormai da anni laboratori di scrittura. Ebbene, quelli di memoir sono tra i più imprevedibili e densi di emozione. Meno sai, e più scrivi. Meno ricordi, e più zampilla la materia scritta. Il silenzio del sé da un lato diventa una trivella della memoria, dall’altro si stacca dal soggetto per farsi storia e diventare racconto. Molto spesso, molto bello. Mi piacerebbe parlarne con voi. Il prossimo Laboratorio lo terremo nel weekend di Pasqua, in mezzo alle montagne fiorite della Valsesia. Vi invito a dare un’occhiata al mio blog:  http://lambertibocconi.blogspot.com/2011/04/buona-pasqua-buona-vita-laboratorio-di.html



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