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Se anche l’export diventa un business per burocrati statali

Creato il 17 marzo 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Ecco perché il contribuente dovrebbe allarmarsi ogni volta che sente parlare di “sostegno pubblico all’internazionalizzazione”. Sprechi italiani e confronti internazionali

Le imprese italiane che si muovono sui mercati internazionali, sia per stabilire all’estero nuovi impianti produttivi sia più semplicemente per esportare i propri prodotti, si sono dimostrate spesso le più innovative e le più resistenti tra le nostre aziende. La conferme di ciò non mancano, come emerge per esempio da alcuni dei dati citati dall’economista Marco Fortis, sul Sole 24 Ore: “L’Italia è seconda solo alla Germania per numero di migliori piazzamenti nelle 14 classifiche 2012 di competitività relative ad altrettanti settori del commercio mondiale”. Inoltre spesso le aziende “internazionalizzate” sono state anche le più fortunate: operare all’estero ha consentito loro di non essere completamente investite dagli effetti negativi di un mercato domestico italiano che negli ultimi anni si è ristretto a causa della recessione e della successiva stagnazione.

Da qualche tempo, però, su export e internazionalizzazione si è iniziata a utilizzare troppa retorica: non si contano più i convegni organizzati sul tema da ministeri e agenzie pubbliche, spesso associati a richieste di maggiori risorse pubbliche per il sostegno alle aziende che intendono varcare i confini nazionali. Ben inteso, il nostro tessuto produttivo è composto perlopiù da piccole e medie imprese (Pmi), e queste ultime devono affrontare costi maggiori e a volte proibitivi – rispetto alle imprese medio-grandi – per informarsi, scegliere, spostarsi e assicurarsi sui mercati internazionali; quindi è comprensibile che, come in tutti i paesi europei, esistano forme di aiuto statale. Però, oltre una certa soglia, “più soldi pubblici” non equivalgono a “più imprese italiane che diventano internazionali”, anzi complicano la vita degli imprenditori, costano cari al contribuente e ingrassano solo le solite burocrazie pubbliche. E’ quanto dice la Banca d’Italia in uno studio pubblicato di recente e stranamente passato sotto silenzio nonostante la fonte sia autorevole e istituzionale.

Gli autori denunciano il numero eccessivo di regole ed enti pubblici del “Sistema Paese”, ovvero l’insieme di strutture che il governo italiano impiega a sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese nazionali. Perfino la Corte dei Conti, nel 2005, si espresse criticamente su questo Sistema Paese: “Norme successivamente emanate non sono state sempre correttamente coordinate con il regime preesistente, per cui il quadro ha perso ogni carattere di sistematicità e ne sono derivate non trascurabili conseguenze che hanno contribuito, insieme ad altri fattori, a creare difficoltà e rallentamenti nella gestione, nonché incertezze e disagi per gli operatori di settore costretti ad agire, tra l’altro, in un contesto produttivo e di mercato in forte evoluzione”. Troppe regole ed enti pubblici, che spesso si sovrappongono fra loro, come si evince da questa “mappa” degli enti pubblici che dovrebbero occuparsi di export e dintorni:

Enti pubblici_Export

Tentiamo di elencare alcuni dei soggetti pubblici coinvolti nel business del “sostegno all’internazionalizzazione” dei privati. Al vertice del Sistema Paese – scrive la Banca d’Italia – “quali decisori delle linee d’indirizzo e delle strategie”, si collocano il Ministero degli Affari esteri, il Ministero dello Sviluppo economico e, per le materie di pertinenza, il Ministero con delega al Turismo. Questi ministeri presiedono due “comitati di coordinamento”: la V Commissione Permanente del CIPE (area viola nella figura) e la “Cabina di regia” creata nel 2011 (area gialla). Quest’ultima, oltre che i privati, coinvolge anche le Regioni e gli Enti locali: perché anche loro, dopo la devoluzione delle competenze in materia dello Stato centrale, si occupano autonomamente di promuovere le esportazioni. Ai due comitati partecipano anche il Ministero dell’Economia e il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. L’attuazione degli interventi è affidata poi a un complesso di attori pubblici, chiamiamoli “enti operativi”: Istituto per il Commercio con l’estero (Ice, abolito nel 2011 per ridurre i costi della macchina statale, e poi resuscitato nel 2012), Sace (Servizi assicurativi del commercio estero), Società italiana per le imprese all’estero (Simest), del sistema delle Camere di Commercio in Italia e all’estero, degli enti regionali di promozione, della Finest, di Informest e dell’Ente Nazionale Italiano per il Turismo (Enit). Oltre alla onnipresente Cassa Depositi e Prestiti. La lista non è completa ma è già lunghissima.

Le conseguenze negative di questa intricata tela di burocrazie nazionali e locali sono almeno tre, secondo la Banca d’Italia. In primo luogo, ciascuno di questi ministeri o enti ha la sua tattica particolare: manca dunque una strategia nazionale efficiente e univoca. “L’assenza di un’unica amministrazione ministeriale al vertice del Sistema paese, con le conseguenti difficoltà di assicurare una strategia integrata a supporto dell’azione di internazionalizzazione commerciale e produttiva delle imprese”. Secondo problema: “I perimetri di competenza non appaiono nettamente divisi tra i differenti attori, non solo all’interno del settore statale, ma anche tra i soggetti pubblici e quelli privati”. Detto in parole più semplici: ci sono molte inutili duplicazioni di ruoli. Così se una piccola impresa vorrà fare ricorso a una consulenza per capire quali siano i mercati stranieri più adatti ai suoi prodotti, potrà rivolgersi all’Ice, ma anche a Sace, Simest, enti regionali, camere di commercio, eccetera. Se poi vorrà un aiuto nella promozione dei suoi prodotti, dovrà districarsi tra quanto offerto da Ice, enti regionali, camere di commercio, camere di commercio all’estero, associazioni imprenditoriali. Con spreco di tempo e di risorse.

Eccoci dunque al terzo grosso problema causato da questo apparato elefantiaco: i costi per il contribuente che spesso non si accorge di nulla e si fida delle belle parole spese a favore delle esportazioni, dell’internazionalizzazione, del made in Italy e via dicendo. Il cosiddetto “Sistema Paese”, in Italia, cioè appunto l’insieme di enti statali e para-statali che sostiene l’internazionalizzazione delle imprese, ha oltre 2.000 addetti, più o meno gli stessi della Francia (che però ha un pil maggiore), molti più di Germania (350 circa) e Regno Unito (650-1.900) che hanno un pil molto maggiore del nostro. Anche i costi sostenuti da Stato centrale ed enti locali, come prevedibile, sono maggiori di quelli degli altri Stati europei: spendiamo ogni anno tra i 250 e i 450 milioni di euro, più della Francia (200-300 milioni) e della Germania (220), al punto che – conclude la Banca d’Italia – i costi di questa “macchina da export” potrebbero essere ridotti anche del 60% lasciando invariati i servizi offerti alle nostre aziende. E’ meglio per tutti, imprenditori e cittadini comuni, che almeno la sorte internazionale delle aziende italiane smetta di essere un business per centinaia di burocrati statali. I soldi risparmiati in questo modo, Roma li potrebbe restituire in tasse a quegli imprenditori che oggi dice di voler aiutare e che invece sta soffocando.


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