Interrogarsi sul senso del fare letteratura è sempre un buon esercizio. Interrogarsi sul ruolo dell’opera letteraria come fattore di influenza sociale è mettere le mani in un ginepraio. Avendo poco a cuore il destino delle mie dita, leggevo stamattina un intervento di Saramago risalente al 1999 sull’irresponsabilità della letteratura. Tra le molteplici cose interessanti che diceva il grande scrittore portoghese c’era questa: “Nel piano dell’etica, dei valori, del rispetto umano, si vorrebbe dire, senza ironia né cinismo, che l’umanità (mi riferisco, è chiaro, a quello che siamo soliti designare come mondo occidentale) sarebbe esattamente quella che è oggi, se Goethe non fosse venuto al mondo”. Non che Saramago avesse qualcosa contro Goethe. Più genericamente prendeva in prestito il suo nome per esprimere un concetto più vasto che riguarda l’impotenza della letteratura, di ogni opera letteraria e del loro insieme, di influire effettivamente nella vita sociale degli uomini. Non sono d’accordo con Saramago. E dico che Saramago stesso è uno di quei pochi (davvero pochi, questo sì) autori contemporanei capaci di incidere eccome nella realtà sociale del “mondo occidentale”, quantomeno se intendiamo la realtà sociale come un organismo costituito da singole personalità variamente influenzabili che contribuiscono ciascuna alla formazione di un modus vivendi, di un ambiente e di una cultura comuni. Il vizio che condiziona l’argomentazione di Saramago è secondo me di natura ideologica, ossia il voler considerare la collettività, secondo una lettura biopolitica, come corpo sociale. A parer mio, ogni minima rivoluzione che un autore di letteratura porta all’interno della psiche individuale di un singolo individuo fa sì che la letteratura (come del resto la musica, l’arte, la politica, la filosofia, l’intrattenimento) rientri, a pieno diritto, fra i grandi agenti di trasformazione sociale.
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