Ieri ho letto un post di Gianluca Morozzi su Ilfattoquotidiano.it in cui si parla del bel libro di Marco Rossari L’unico scrittore buono è quello morto (edizioni e/o) che qualche mese fa ho recensito anch’io, sempre sul Fatto (qui), e ho notato come Morozzi abbia sottolineato più volte che il libro di Rossari, a suo dire, è un romanzo. Da parte mia, nella recensione che dicevo, rimarcavo il fatto che non di un romanzo si tratta, bensì di “una miscellanea di arguzie, calembour, parabole surreali (o iperreali) sulla letteratura e i suoi eroi, veri o presunti”. Mi capita sempre più spesso di far caso a come venga usato impropriamente il termine “romanzo”, anche dagli addetti ai lavori, per indicare libri che romanzi non sono. Ho provato allora a discuterne su Facebook cercando di capire quale fosse il motivo di questo lapsus continuo che tende ad azzerare i generi e a definire qualsiasi cosa come “romanzo”. Uno degli scrittori italiani contemporanei di cui ho maggiore stima, Sergio Garufi, mi ha replicato citando il caso di Gomorra di Saviano, evidenziando che alla sua uscita in tanti (tra cui Saviano stesso) si affrettarono a definire “romanzo non fiction”, finendo paradossalmente per aderire al giudizio che ne diedero, con tutt’altri scopi, i suoi peggiori detrattori, ossia i camorristi di Casal di Principe che provocarono Saviano dicendogli: “Hai scritto proprio ‘nu bello romanzo”. Su questo punto ho sempre ritenuto che uno dei meriti di Gomorra fosse l’aver riportato in auge un genere nobile della tradizione letteraria italiana del Novecento, il reportage, ma l’ostinazione nel volerlo etichettare come “no-fiction novel” (la cui definizione è già di per sé uno stridere d’unghie su un vetro) fa pensare che la parola “romanzo” riesca ancora a conferire a uno scritto un sovrappiù di dignità e di decoro, anche laddove non ce ne sarebbe bisogno. Quindi, tagliando corto, il romanzo – da genere – pare sia diventato uno status, ossia per un testo si cerca una posizione che prescinde dalla sua natura, dalle categorie della critica a cui apparterrebbe di fatto. Insomma, come accade con gli oggetti di consumo, anche nel caso del romanzo, oggi, il principale veicolo non sembra essere più il testo in sé ma l’etichetta che gli si dà. Che mi sembra una cosa sulla quale vale la pena riflettere.
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