Questo articolo è di Silvia Spiropulos.
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Mi è stato chiesto di scrivere un articolo per questo blog. Una bella soddisfazione, visto che non mi è mai capitato di poter rendere pubblica qualche mia riflessione. Dopo aver tentato di valutare se mi sentivo all’altezza del compito, ho deciso di provare: non nego che l’idea di poter avere uno spazio in cui confrontarmi con eventuali lettori da cui avere un riscontro mi ha allettato non poco.
Per cui, per prima cosa, ringrazio moltissimo per la possibilità che mi è stata offerta [Figurati, Silvia, il piacere è stato tutto mio! - NdR]. Forse sembrerà sciocco, ma di questi tempi avere l’occasione di comunicare ed essere ascoltati è un bene prezioso. Vorrei parlare dell’identità…
Dove hanno messo il libretto di istruzioni?
L’identità può essere definita come il modo di percepire se stessi. Più facile a dirsi che a farsi: se ai tempi di mia nonna l’identità era ben scandita e radicata, oggi ha confini labili e contorni diffusi.
In questo periodo si parla tanto del problema dei giovani, di quanto siano insoddisfatti, alienati, senza idee chiare né progetti. Stento fortemente a credere che siamo una generazione di rammolliti senza la minima aspettativa circa il futuro solo perché “ci è stato dato tutto”. E non credo, come i luoghi comuni di vecchio stampo ritengono, che la causa del problema sia stato l’accomodarsi su tutti questi agi. Reputo, invece, che le innumerevoli prospettive che ci circondano ci abbiano letteralmente sovrastati. E questo perché nessuno ci ha mai fornito i mezzi e gli strumenti per capirle a fondo e poter scegliere.
Non per negligenza, sia chiaro, quanto più che altro per impreparazione! Il modello educativo che ci è stato insegnato è valso per molte generazioni, è vero, ma non per la nostra. Una volta usciti di casa, trovandoci a contatto con la realtà vera, abbiamo scoperto come questa sia completamente diversa da quella che ci era stata descritta, e che le tecniche che ci sono state insegnate per fronteggiarla appaiono assai limitate e inappropriate.
Piuttosto, quindi, se mi guardo intorno, mi sembra di vedere identità disperse e disorientate che arrancano nel vuoto, nel tentativo di definire e affermare se stesse.
Chi pensiamo di essere, chi vorremmo essere e chi ci chiedono di essere.
In altre parole, se all’epoca di mia nonna la vita somigliava ad un ruscello dalla traiettoria ben definita, ora siamo nel mezzo dell’oceano, trasportati da mille correnti contrastanti; frammentati tra chi pensiamo di essere, chi vorremmo essere e chi ci chiedono di essere. Insomma, sappiamo tutto fuorché chi siamo davvero, e la cosa è terribilmente destabilizzante!
Un tatuaggio per intrappolare un frammento di identità.
Il mio spunto di riflessione viene dal tatuaggio. Per molti è una questione che si può velocemente risolvere (e accantonare) con il fenomeno “moda”. Ma come ho scritto nella premessa, al giorno d’oggi, nel marasma della società in cui ci troviamo, comunicare e ricevere attenzione è un lusso non di poco conto.
Vedo nel tatuaggio (come nel blog, in una foto ecc.) il tentativo di imprigionare un qualcosa di noi stessi e, grazie all’impatto visivo, comunicarlo agli altri. È un po’ come intrappolare per sempre un frammento di identità, per poterlo finalmente mettere in tasca. È un po’ come appiccicare un’etichetta su un mazzo di fascicoli confusionari per poterli riporre finalmente su uno scaffale e poter dire “Anche questa è fatta!”.
Non si può rinchiudere un tornado in una scatola.
Tuttavia, credo che sia impossibile rinchiudere a tutti i costi un tornado in una scatola. Le possibilità sono infinite, e altrettante sono le facce della nostra identità, è inutile ridurci ad un modello prestampato.
Se all’epoca di mia nonna l’identità era unica, solida e durevole, oggi non può che essere multipla, fluida e temporanea. Non c’è da sentirsi in colpa se un giorno si è una cosa e il giorno dopo un’altra, oggi la nostra identità non è altro che la nostra costante mutevolezza… oggi non ci sono margini: si nuota in mare aperto!
Silvia Spiropulos