In che misura va preso come riferimento un maestro spirituale?
Perché persone che hanno dedicato anni alla ricerca spirituale in compagnia di un maestro fuggono nottetempo dal convento, dal tempio o dall’ashram?
Cos’è che inquina il rapporto tra maestro e discepolo?
Con sincero ed affettuoso rispetto della tradizione, voglio partire da qualcosa di diverso rispetto alla citazione delle dieci principali offese che impediscono il progresso spirituale di chi medita sul maha mantra Hare Krishna.
Partirò invece dal Convivio di Dante Alighieri, un’opera scritta in volgare per i “miseri”, ovvero per coloro che non hanno potuto accedere alla dottrina, poiché chi non ha saputo o voluto è impossibile da recuperare. Così afferma il Poeta e questa precisazione mi piace molto.
Nel quarto trattato Dante parla di una pianura innevata sì che d’alcuno sentiero vestigio non si vede. Un uomo si trova a doversi recare ad una casa che si trova dall’altra parte della stessa pianura, egli intraprende il cammino e per accorgimento e per bontade d’ingegno, solo da sè guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigia de li suoi passi diretro da sé.
Un altro uomo deve raggiungere la stessa magione e non dovrebbe fare altro che seguire li vestigi lasciati. Ma questo secondo, pur avendo visto le orme, sbaglia e devia per li pruni e le ruine non andando dove deve andare.
Conclude Dante che si deve chiamare vile, nel senso di non valente, colui che non avendo nessuna traccia da seguire si perde, ma si deve chiamare vilissimo,
degno d’ogni disprezzo e vituperio più che altro villano, colui che pur avendo un cammino tracciato non lo segue e si perde, infierisce il Poeta che cotale vilissimo essere morto, parendo vivo, aggiungendo, e qui vi prego di prestare l’attenzione: vivere ne l’uomo è ragione usare. Cessare di ragionare è per Dante cessare di vivere e si manifesta massimamente concolui che ha le vestigia innanzi e non le mira.
Il cerchio è chiuso, permettendo a Dante una sintesi pragmatica: colui è morto che non si fé discepolo, che non segue lo maestro, contemporaneamente avverte: levando la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto.
Ho sentito decine di volte Marco Ferrini dire di “non imitare il maestro, ma di seguirne le orme”, di non abdicare mai alla ragione, di ricordare i precetti della Bhagavadgita (IV, 34) che impongono al discepolo di interrogare con umiltà e di servire il maestro. E’ psicologicamente sottile la Bhagavadgita! Senza umiltà mancherebbero i presupposti per imparare alcunché, non casualmente Dante incontra i superbi nel primo cerchio del Purgatorio, ovvero senza umiltà non si sale! Servizio, il vero insegnamento passa attraverso un sentimento d’amore, di altruistico desiderio di condividere, per imparare è necessario entrare in questa dimensione ed è naturale che la gratitudine si esprima come servizio, rafforzando così la relazione e la conoscenza; infine quel “porre domande”, l’interrogare i sapienti che vedono la verità, che altro è se non l’uso della ragione al suo massimo grado?
I maestri possono darci delle risposte, ma noi dobbiamo avere le domande.
E il desiderio di ricercare.
Ma la vita incarnata è un sentiero difficile e pericoloso, più consolatorie e riposanti sono pertanto le certezze, pillole grandi o piccole da buttar giù senza masticare, buone per tamponare la sofferenza, ma palliativi che non ne risolvono la causa.
E’ comprensibile che all’inizio nei confronti del maestro spirituale possa esserci identificazione e culto della personalità, rimanerci inchiodati è però distruttivo non solo della vita spirituale, ma della vita semplicemente.
Patanjali stesso più volte ci mette in guardia nel suo trattato sulll’Ashtanga Yoga. Nel Samadi Pada, dopo aver descritto la fenomenologia dei condizionamenti, cita in due diversi sutra “Samyoga”, unione tra materia e coscienza (prakriti e purusha), nel XVII per avvisare che la confusione di soggetto e oggetto è da evitare poiché è all’origine del dolore e nel XXIII dichiarando che la conoscenza può avvenire proprio grazie alla congiunzione tra coscienza e natura, ma questa volta in modo consapevole da parte del soggetto.
Qui sta il punto, nella capacità di Svadhyaya, uno dei tre pilastri della disciplina yogica, ovvero nella capacità di “digerire” gli insegnamenti, di farli risuonare con la nostra particolarissima personalità che per definizione è diversa da quella di chiunque altro. Per assolvere bene a questo compito è però necessaria un’autoanalisi cristallina che progressivamente porrà a video le motivazioni del nostro percorso spirituale. Non scandalizziamoci se lungo questo sentiero incontreremo il desiderio di proiettare nel maestro il nostro desiderio di un padre autorevole o dell’amico benevolo cui appoggiarsi nelle difficoltà, non cospargiamoci la testa di cenere se scopriamo di aver bisogno di un analista prima o contemporaneamente al maestro, niente di stupefacente, al contrario è ottima cosa individuare i nostri punti deboli. Il maestro coltiva in primis la compassione e poi molte altre virtù che cercherà di trasmetterci, ma lui stesso talvolta avrà bisogno di mettere a fuoco situazioni e comportamenti particolari, può darsi che abbia anche bisogno del nostro aiuto.
Quando si dice che il maestro è il modello da seguire, a mio parere significa che ha da essere preso ad esempio nelle qualità che lo contraddistinguono, ognuno però deve declinarle al proprio essere, a quel daimon che deve realizzare in questa esistenza, in questo ha senso la parola destino, per esempio può darsi debba “applicare” la compassione o l’umiltà che ha imparato dal maestro in una modalità diversa dal “modello” originale, con parole e comportamenti adatti ad altre contingenze.
Noi siamo dove siamo perché ci portiamo dietro quello che S. Freud chiamerebbe inconscio e Patanjali Karmashaya, le conclusioni sono le stesse: per “guarire” è necessario conoscere sé stessi senza i veli delle razionalizzazioni; ci vuole energia e coraggio, più facile è aderire col sistema copia-incolla, ripetendo dogmaticamente all’unisono e con soddisfazione dell’io quel che si è ascoltato, salvo poi cozzare col primo ostacolo e scoprirsi privi di quella misericordia tanto decantata o prigionieri di parole che non riusciamo a contestualizzare nella nostra quotidianità. Sublimare ed incanalare va bene, ma con l’uso della ragione ed in piena consapevolezza, non mi convincono le rinunce nevrotiche né le compensazioni, ascesi (tapas) non mi pare da intendere come coercizione, bensì come scelta faticosa si, ma anche gioiosa, come per i sapori industriali e naturali, i primi sono subito attraenti, ma appena messi in bocca diventano indifferenti se non peggio, quelli naturali invece rilasciano a lungo il loro particolare gusto che può anche non piacere.
Le scritture di tutte le grandi tradizioni vedono la dipendenza psicologica dal maestro come un impedimento all’evoluzione spirituale, esse mi pare invitino ad un’autonomia relativa, quella di cui parla Dante nel Convivio: è vilissimo non seguire le orme di chi ha già percorso il sentiero, ma il sentiero dobbiamo percorrerlo noi stessi, al lume di quella ragione che per l’appunto ci distingue dai bruti.
Graziano Rinaldi
Magazine Spiritualità
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