“Il dottor Imre Téglásy è un patriota, ama l’Ungheria e pensa che l’Ungheria abbia bisogno di un futuro: per questo combatte l’aborto, che sta scippando il futuro radioso che il paese si merita”. In questo modo la Human Life International (la più grande organizzazione pro-life al mondo) introduce la storia di Imre Teglasy, presidente di Alpha Alliance for Life, in un video in cui lo stesso racconta la sua storia e gli eventi che lo hanno portato a dedicare la sua vita nella battaglia per la vita.
Il dottor Teglasy è infatti rimasto profondamente segnato dall’aver scoperto, all’età di undici anni, di essere sopravvissuto ad un aborto, scoperta che lo aiutò a comprendere come mai la sua relazione con la madre era stata difficoltosa, complicata. La madre era stata costretta dal regime comunista, assieme al marito, a vivere in condizioni misere: in quel contesto aveva provato ad abortire, fallendo: l’aborto fu fondamentalmente impedito dal padre di Imre (cattolico convinto) e dall’assenza dei mezzi per abortire (quindi, ironicamente, dallo stesso regime comunista che aveva costretto la famiglia alla miseria).
È dalla sua storia personale, quindi, che il dottor Teglasy ha tratto la motivazione per dedicarsi completamente alla sua missione mentre avrebbe potuto lavorare in un’università (essendo dottore in letteratura): “Sono stato mandato da Dio per questo lavoro”, dice, un lavoro che consiste nel diffondere il “Vangelo della Vita” e che si è già attuato nella linea telefonica da lui creata per accogliere le telefonate delle donne che ne avessero bisogno per salvare la vita dei loro bambini. L’aborto, per Teglasy, è un problema, e un problema che non si può tenere nascosto, un problema che si può risolvere sulla via suggerita da Dio stesso; un problema che non tocca solo la sua persona, ma la nazione, l’Europa e il mondo intero.
Tornando alla relazione tra madre e figlio, ben diverso è stato il caso di Katyia Rowe e suo figlio Lucian: i dottori le avevano detto che il cervello del bambino non si era formato adeguatamente, e che questi non sarebbe mai riuscito a parlare o camminare, che avrebbe avuto bisogno di sostegno 24 ore al giorno e che, in ogni modo, non sarebbe sopravvissuto al quinto anno di vita.
La donna, però, ha visto suo figlio sorridere, faceva scoppiare delle bolle, calciava e sbracciava nel suo ventre attraverso un’ecografia in 3D ed ha deciso che l’avrebbe lasciato nascere in ogni caso. “Guardando sapevo come mentre lo portavo dentro di me la sua vita fosse dignitosa, e che il mio dovere di madre era di proteggerlo a prescindere dal tempo che gli rimaneva”. Katyia, che non si era mai considerata particolarmente materna, si è accorta di non voler nient’altro che prendersi cura di suo figlio e dargli tutto il possibile, senza preoccuparsi dell’impegno che avrebbe richiesto: anche quando dovette affrontare il doloroso drenaggio del fluido amniotico che, per ragioni legate alla malattia, non poteva essere eliminato nel modo naturale continuò a pensare che ne valesse la pena, perché “come madre fai qualsiasi cosa per il tuo bambino, ed io sono diventata madre nello stesso momento in cui sono rimasta incinta, quel mestiere era già iniziato.”
Lucian ha vissuto solo nove ore fuori dal ventre di sua madre, momenti che la donna ricorda così: “Quello fu senza dubbio il momento più felice della mia vita. Lucian poteva morire in qualsiasi momento nel mio ventre, ma ha resistito abbastanza a lungo perché ci incontrassimo davvero. Mio figlio sembrava assolutamente perfetto. L’amore e la gioia che sentii nel momento in cui posero Lucian tra le mie braccia mi hanno fatto capire che ne è davvero valsa la pena.” e aggiunge: “Pensavo di non voler essere una mamma, ma Lucian mi ha fatto capire che è il mestiere più bello del mondo e sarò sempre grata per questo.”
Quest’ultima vicenda conferma quanto scritto dall’arcivescovo di New York Timothy Dolan sul Catholic New York pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario della Roe vs Wade: «La cultura popolare vi chiama “la generazione del millennio”, perché siete cresciuti all’alba del nuovo millennio. Ma io vi penso come “la generazione ultrasonica”; voi siete diversi da ogni altra generazione mai apparsa prima, perché le foto della vostra infanzia non sono state scattate quando eravate tra le braccia di vostra madre, ma quando vivevate nel suo utero (…) Così avete conosciuto i vostri fratellini e le vostre sorelline già prima che nascessero, in quei video sgranati, quelle foto attaccate al frigo. La vostra mamma o il vostro papà vi hanno mostrato quelle prime immagini di voi stessi. Alcuni di voi hanno persino visto i propri stessi figli per la prima volta con la nuova e più chiara tecnologia ultrasonica a 3 e 4 dimensioni. Avete sussultato con meraviglia alla vista di quelle piccole braccia ondeggianti, le gambe che scalciavano, la testa che andava su e giù, il cuore che batteva, mentre il bambino si succhiava il pollice. Voi avete visto, perciò credete»