9 NOVEMBRE – La puntata di domenica scorsa di Report su Moncler, oltre alla flessione del titolo in borsa, ha riacceso gli animi su diversi fronti riguardanti: la tendenza degli imprenditori italiani a delocalizzare la produzione, la tutela del made in Italy che in questo modo viene bistrattato, il problema del costo del lavoro nel nostro Paese, il rispetto dei principi di tutela degli animali, che un marchio di lusso come Moncler dovrebbe rispettare stando al suo codice etico.
Che ci siano delle imprese, anche se appartenenti al settore del lusso che sfruttano tutti gli escamotage possibili per ridurre al minimo i costi di produzione, in alcuni casi anche a scapito della qualità, è risaputo, e ne aveva già fatto cenno Roberto Saviano in “Gomorra” portando alla luce la realtà della sartoria di alta
qualità del sud Italia sfruttata e ridotta in miseria dai grandi marchi nei laboratori gestiti dalla criminalità organizzata. E verrebbe da pensare che per ottenere i margini di cui un’impresa del fashion ha bisogno per la propria sopravvivenza nel mercato, che impone anche ingenti costi a livello di immagine e pubblicità,
sforbiciare i costi -a qualunque costo -sia l’unico rimedio per rimanere a galla.
La tutela del made in Italy però, se di questo vogliamo parlare, non passa per queste vie, e ce lo dimostrano altre realtà che riescono a prosperare salvaguardando il lavoro dei propri artigiani, e allo stesso tempo mantenendo degli standard qualitativi altissimi; e quando si parla di impresa etica si finisce sempre col menzionare Brunello Cucinelli, che dell’impresa umanistica che risponda a tutte le regole di etica, ha fatto il suo credo e l’ha portato dal borgo medievale di Solomeo in Umbria, alla quotazione in Borsa del suo marchio specializzato nella creazione di pregiati capi in cashmere. Ma non solo: mentre l’azienda cresceva si proponeva di contribuire alla tutela, finanziando i lavori di restauro, del patrimonio culturale e paesaggistico del territorio umbro, il proprio territorio, nel quale Cucinelli ha sempre mantenuto salde le sue radici, e si preoccupava di fondare la “Scuola dei mestieri” per formare i propri artigiani, e restituire nobiltà ai mestieri che si stanno perdendo, come in una sorta di neo-rinascimento.
Nella stessa direzione si muove il sistema CNA Federmoda, che si sforza di valorizzare l’eccellenza, la tradizione, il sapere artigianale e la creatività della moda made in Italy abbinando la crescita imprenditoriale alla sostenibilità, ritendendola possibile sfruttando le risorse tecnologiche e le innovazioni nel campo del design.
Purtroppo queste vie, non sono facilmente percorribili, ma devono essere di stimolo per tutte quelle imprese che ritengono non remunerativo o addirittura non possibile nel nostro Paese un atteggiamento imprenditoriale volto alla valorizzazione del lavoro, inteso come capitale umano a cui attingere, perché solo in questo modo si può recuperare quel made in Italy tanto discusso e tuttavia prezioso per nostra economia.
Ilaria Gaggiano
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