di Alfonso Nannariello
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Ognuna avrebbe potuto sposare ognuno. E, per il volere di un padre, si destinavano i suoi giorni a chi avesse voluto.
Il dolore collettivo delle due guerre del Novecento, cambiò per sempre i rapporti tra le persone e il modo di vivere. Il matrimonio iniziò a essere fatto per amore, non più per dovere.
Non deve essere stato proprio così da noi.
Anche in altre foto di quel tempo ho visto, sotto i veli bianchi, le spose adombrate da un lieve timore. Alcune, invece che contente per essersi appena maritate, sembrano abiti nuziali appesi ad un cipresso.
Per molte cambiar casa quasi equivaleva ad andare in una terra straniera. Tutte, invece, erano più o meno spaventate da ciò che avrebbero dovuto concludere proprio quella sera, certamente impressionate dal solenne rituale dell’ostensione al balcone, la mattina dopo, del lenzuolo sporco del loro sangue. E ognuna si augurava che il marito la prendesse con qualche cautela o, almeno, non proprio così spesso.
R zit, le spose, allora portavano in dote il proprio corpo, non so se pure il cuore, non so con quanto affetto.
Per quel loro unico viaggio le ragazze portavano una forza naturale, una torsa1 di fermezza che, per quanto tirata, non si spezzava, che faceva fare ciò che si doveva in ossequio solo alla ragione di una pervicace tradizione; portavano, poi, una scorta di coraggio nel caso la cosa andasse male, e una dose di magia che le componesse con le nuove cose.
Non so come aprissero le gambe, non so cosa sentissero nel corpo e dentro il cuore. Ognuna sentì l’ingombro con lo strappo, e forse nella paura non inghiottiva più nemmeno la saliva.
Nella parola detta dal riserbo, piene di pudore, ognuna stringeva tra le labbra e tra le sopracciglia la fitta e il bruciore.
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1)
Torsa, «corda tosta, fune a più capi». Forse dal latino «torqueas».