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Se queste sono Olimpiadi

Creato il 11 agosto 2012 da Faustodesiderio

Per che cosa saranno ricordate le Olimpiadi di Londra 2012? Per i record di Bolt o di Phelps? Per lo scandalo di Alex Schwarz o per l’eccezione di Josefa Idem? Per i quattro miliardi di telespettatori di tutto il mondo o per i 16.500 militari impiegati per la sicurezza ossia più del doppio del contingente britannico in Afghanistan? L’invenzione greca dei Giochi olimpici era una festa religiosa in onore della divinità. La gara aveva un significato rituale e l’atleta vincitore di una gara rappresentava simbolicamente la relazione più elevata con Zeus. Achille volle organizzare i Giochi per commemorare Patroclo, mentre Alcinoo li volle in onore del suo ospite Odisseo. I Giochi moderni, resuscitati dalla bella intuizione del barone de Coubertin, per quanto custodiscano il fuoco sacro della fiamma eterna cara a Eraclito, ben presto hanno finito per sostituire la divinità assente con la Pubblicità. Non è il caso di moraleggiare: in fondo, anche la reclame è la umanissima aspirazione alla sopravvivenza di se stessi. Sia i Giochi antichi sia i moderni inseguono correndo e gareggiando l’immortalità. Lo si capisce bene quando si ascolta Usain Bolt: «Io sono leggenda. Io sono il più grande atleta vivente». La grande impresa è un’invenzione dei mortali per divenire immortali, un modo per uscire dal Tempo o per permanervi per sempre. Bolt, nonostante il nome da detersivo, si è guadagnato con l’eleganza del suo passo da pantera il suo spicchio di immortalità. Che gli dei siano per sempre con lui.

Donald Braggs, medaglia d’oro ai Giochi di Roma del 1960, una volta disse: «Quando qualcuno cerca di farmi notare che c’è qualcosa nella vita oltre alle Olimpiadi, rispondo: davvero?». È qualcosa di più di una bella battuta. Perché le Olimpiadi hanno qualcosa di assoluto che può diventare ossessivo. Di Olimpiadi si vive e si muore. Sono un sogno e un incubo. Come per la bagnina di Saddam Hussein – la buonanima – che pur essendo una delle più grandi atlete irachene era costretta dal dittatore a prendersi cura della sua piscina e fu esclusa dai Giochi per mancanza di allenamento.

O come la storia di Stephen Cherono, il re dei 3000 e 5000 siepi, che insieme con gli altri atleti keniani che come lui correvano per il Qatar, erano costretti a convertirsi all’Islam e a cambiare nome perché la federazione sportiva del loro paese non era in grado di sostenerli. Emanuela Audisio nel suo libro Tutti i cerchi del mondo sostiene, non senza enfasi, che i Giochi erano, sono, saranno. Sydney 2000, Atene 2004, Pechino 2008. E noi oggi possiamo aggiungere Londra 2012. Ci sarà sempre qualcosa prima, durante e dopo. Cento corse non fanno una finale olimpica. Come disse il mezzofondista americano Glenn Cunningham, argento nei 1500 a Berlino nel 1936: «Puoi partecipare a molte gare, ma le Olimpiadi sono un’altra cosa». Che, diciamo la verità, come frase non è proprio così bella da passare alla storia. Non solo. Il punto, oggi, sta proprio qui: non si sa più che cosa siano le Olimpiadi. Sono diventate troppo grandi, eccessivamente mondiali. E si sa che quando una cosa diventa fuor di misura si snatura. Perde la sua essenza o natura. Diventa altro. A Roma nel 1960 vi erano 84 nazioni. A Londra 2012 erano in gara 12000 atleti di 204 nazioni. E non hanno gareggiato solo nell’atletica leggera ma anche nel beach volley. Certo, i tempi cambiano e sotto il cielo nascono nuove cose ed è giusto aggiornarsi. Ma resta l’interrogativo: il beach volley è uno sport per le Olimpiadi? Anzi, per dir meglio: è un gioco adatto per i Giochi olimpici? E devo ammettere che ho dei dubbi anche sul calcio, sulla pallacanestro, sulla pallanuoto, sulla pallavolo, sul tennis…

I Giochi olimpici sono essenzialmente le gare di atletica leggera. Lo sentivo dire proprio ieri da Giacomo Crosa, un vero signore del giornalismo sportivo, sempre così elegante senza sforzo e senza sfarzo, quando ha chiamato l’atletica “mamma atletica leggera”. Sarà che anche Crosa è figlio dell’atletica leggera – partecipò ai Giochi di Città del Messico del 1968 e la sua disciplina era il salto in alto e il suo miglior salto fu di 2,14: non male per quei tempi – ma è semplicemente vero che i Giochi sono atletica perché l’atletica è i Giochi. L’atletica è alla base dello sport e del gioco e di uno sportivo e di un giocatore si dice che è un atleta. Eppure, oggi i Giochi non si identificano più con la Signora Atletica. Volete una prova? Eccola: fatta eccezione per il solito Usain Bolt è difficile che si ricordino i nomi di altri atleti che scendono in pista. È inequivocabilmente un segno dei tempi.

Un tempo c’erano atleti che segnavano le epoche. I loro nomi si ricordavano con ammirazione anche al di là dell’agonismo: in Italia, per sempio, c’erano Livio Berruti, Pietro Mennea, Sara Simeoni. Il Berruti, figlio della agiata borghesia sabauda, affrontò l’impegno sportivo con un certo distacco, anche quando la carriera lo pose davanti a appuntamenti agonistici di rilievo. La sua caratteristica sui 200 metri – la sua vera specialità – era quella di uscire sempre primo dalla curva. Che, a ben vedere, è anche la caratteristica di Bolt (del resto, se non esci avanti agli altri dalla curva, difficilmente vincerai la gara). Livio Berruti, a soli 21 anni, firmò nel pomeriggio del 3 settembre 1960, una delle più importanti imprese nella storia dell’atletica italiana: vinse la finale dei 200 metri ai Giochi di Roma. Aveva deciso di correre solo i 200 tralasciando i 100 e la staffetta. Dopo aver vinto la batteria di qualificazione in 21”14 e aver superato i quarti di finale con 20”91, in semifinale Berruti bloccò i cronometri al tempo di 20”5 eguagliando il primato mondiale. La finale si svolse alle 18,00 di sabato 3 settembre. Ci fu prima una partenza falsa, proprio di Berruti. Quindi, la partenza giusta allo sparo dello starter Primo Pedrazzini, e via alla corsa, una curva disegnata come Dio comanda, l’uscita sempre in testa dalla curva, il rettilineo con un metro e mezzo di vantaggio sugli avversari, la vittoria. Livio Berruti è stato il primo atleta non nordamericano nella storia dei 200 metri con il tempo di 20”5. Ebbe come premio un milione e duecentomila lire dal Coni e una Fiat 500. Quindi si laureò in chimica pura, dopo aver lasciato l’antagonismo con quarantuno presenze in nazionale. Altri tempi.

tratto da Liberalquotidiano.it del 11 agosto 2012



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