Magazine Attualità
Testo dell’intervista pubblicata mercoledì 4 luglio 2012 suLa Provincia di Sondrio, in occasione dell'incontro-presentazione a Castel Masegra.
Se uccidere una donna è come uccidere un passero. Succede ne “L’inferno chiamato Afghanistan”, dove Giuseppe Bresciani ha vissuto per tre mesi. Un’esperienza limite tradotta nei capitoli del libro che questa sera presenterà al pubblico di Sondrio. di Sara Baldini
L’avventura in quell’inferno che è al centro del primo libro che firma con il suo nome, senza pseudonimi, per Giuseppe Bresciani è iniziata quasi per caso. Rappresenta un po’ il “terzo tempo” dell’esistenza, a propria volta da romanzo (“ancora da scrivere, me lo dicono in tanti, magari prima o poi mi ci metterò”) di questo ex “imprenditore umanista”, così si definisce, che parla come scrive: affascinando. Potenza delle parole, parole che ci portano dritti in un mondo di polvere, rassegnazione, miserie illuminate da lampi di poesia, brevi flash di umanità. Flash, appunto. Niente di più. È l’inferno. L’inferno dove Bresciani ha scelto di vivere per tre mesi. Cacciando il naso dappertutto, senza scorta ma senz’altro con un angelo custode che ha pensato bene di non distrarsi, questo si direbbe proprio di sì. Infatti, dall’inferno è tornato. E lo ha voluto raccontare.
Facciamo un passo indietro. Perché ha deciso di partire? Mi piace definire il mio viaggio-soggiorno in Afghanistan una “lucida follia”. Mia figlia, che è giurista e si occupa di diritto umanitario, aveva in animo di partire per l’Afghanistan, dove avrebbe collaborato con una onlus afghana per la tutela dei diritti delle donne e dei minori. Decisi di accompagnarla perché temevo per la sua incolumità. Lo feci ottenendo un visto turistico, circostanza unica più che rara. Partii senza sapere esattamente cosa fare, con la voglia di esplorare l’Afghanistan alla maniera dei viaggiatori d’altri tempi e di raccontare le verità che sono taciute per calcolo o interesse.
Che cosa l'ha spinta a rimanere? La sete di conoscenza. In primo luogo. Poi, il gusto della vita inimitabile, alla D’Annunzio, fuori da ogni schema o routine. Per un occidentale privo di credenziali, scorta armata e incarichi ufficiali, - insomma, una sorta di cane sciolto che la stessa ambasciata italiana a Kabul guardava con diffidenza, immaginando potesse creare seri problemi – restare lì tre mesi è stata una sfida. Difficile ma vinta.
Talebani o no, le donne afghane continuano a non passarsela bene. Ci vorrà molto tempo perché le cose cambino. Il paradosso è che l’articolo 22 della Costituzione sancisce la parità dei diritti e dei doveri di fronte alla Legge da parte di uomini e donne, ma poi, nella realtà, è facile che l’esistenza di una donna dipenda dalla Sharia (la legge islamica) o dalle leggi tribali più che dal codice civile e penale. Ovvero da norme che equiparano la donna a una bestia, per cui, in Afghanistan, uccidere una donna è come uccidere un passero. In ogni caso, le donne subiscono ogni sorta di angheria in una società che non è solo maschilista ma misogina. L’infelice condizione femminile è illustrata pienamente dal burqa, una sorta di gabbia di tessuto azzurro che toglie la dignità oltre a negare l’identità. Attualmente, molte donne afghane, per lo più giovani, cercano di ribellarsi alle ingiustizie e scelgono la via estrema: il martirio. Per sfuggire a un’esistenza grama, fatta di violenza, sopraffazione e dolore, si danno fuoco.
Descrive in modo efficace anche la situazione schizofrenica della sanità afghana. Cliniche specializzate convivono con medici del villaggio che si comportano al pari di stregoni e fattucchiere. Dal punto di vista sanitario, l’Afghanistan oscilla fra il Medioevo e la modernità che gli occidentali stanno imponendo con fatica. Ci sono molti ospedali nelle città importanti del Paese ma nessuno di noi si farebbe ricoverare. Fanno paura. Le uniche eccezioni sono alcune cliniche europee o americane, l’ospedale di Emergency e gli ospedali italiani; l’Esteqlal di Kabul, l’ospedale regionale e quello pediatrico di Herat. La verità, è che moltissimi afghani continuano a curarsi con rimedi sciamanici. Basti pensare che le donne curano i bambini soffiando loro addosso il fumo dell’oppio. Inoltre, è naturale morire presto in un Paese dove l’aspettativa di vita è di 48 anni e dove il 70% dei parti avviene in casa. Ogni anno, 18.000 donne muoiono dando alla luce la loro creatura. L’Afghanistan è al penultimo posto al mondo per la mortalità infantile. Solo l’Angola è messo peggio. I bambini muoiono ancora più facilmente, a causa delle bombe e delle mine, di morbillo, parotite, tubercolosi, malaria, diarrea per un semplice raffreddore.
È riuscito a scorgere spunti di poesia in un’esperienza che per intensità e orrori è destinata a restare insuperabile.Nel capitolo “Dieci lapislazzuli per non dimenticare” ho riassunto i dieci ricordi più suggestivi. Forse, l’immagine più bella è quella dell’Afghanistan visto dal cielo, mentre ero in volo sulla “balena verde”, un elicottero Boeing CH47 dell’Esercito Italiano. Dall’alto, l’Afghanistan è una terra magica, ancestrale. Il deserto, le montagne, i fiumi, le oasi, i villaggi antichi… tutto riporta al tempo delle Mille e una notte e ancora più indietro, alla marcia dell’esercito di Alessandro Magno l’India. I paesaggi sono ammalianti e blandiscono il cuore.
Molte di più le immagini scioccanti che le sono rimaste nel cuore. Tantissime. Ma forse, la più imprevedibile è il braccio di un talebano dilaniato dall’esplosione di una bomba. Lo vidi nel quartiere Taimani di Kabul, dove mi recai appena avuto notizia di un attentato. Fui l’unico occidentale ad avventurarmi lì, e proprio mentre le ambasciate diramavano sms invitando i connazionali a stare alla larga da Taimani. Fui circondato dagli afghani inferociti che tuttavia non mi fecero nulla di male poiché rispettarono la mia audacia. Per finire, c’è un’immagine che non dimenticherò mai. È quella di un mio piccolo amico senza braccia di nome Faizullah. Viveva chiedendo l’elemosina nei pressi delle macerie del palazzo reale di Kabul. Mi affezionai a lui e soffrivo per il suo pianto disperato. Ogni volta che gli regalavo soldi o cibo, veniva regolarmente picchiato e derubato da altri bambini di strada. I suoi occhi supplicanti sono ancora oggi lame conficcate nella mia mente.
Ci sono alcune bellissime pagine in cui con trasporto e orgoglio descrive l'attività dei nostri soldati in Afghanistan. Io ero fiero di essere italiano mentre ero in Afghanistan. Certi luoghi comuni andrebbero sfatati, gli italiani sono veramente “brava gente”. Assolvono il loro dovere con dedizione. Ho apprezzato in particolar modo l’umanità dei nostri soldati nei confronti della popolazione locale. Diverso sarebbe il discorso sul governo e la politica. Il nostro paese è come Giano bifronte. Gli italiani che lavorano e ci mettono la faccia sono persone per bene. Ma dietro, ci sono troppi interessi economici e giochi di potere. Beh, gli alpini e i carabinieri che ho conosciuto in Afghanistan sono l’espressione di un’Italia virile, laboriosa e leale di cui essere fieri.
"Il nemico peggiore dell'Afghanistan è lo stesso Afghanistan", quale futuro politico per questo Paese, se e quando il controllo occidentale dovesse anche soltanto allentarsi? Temo che l’Afghanistan abbia un grande futuro alle spalle. La vedo male. Quando l’Alleanza Atlantica e la stessa Onu allenteranno la morsa, insomma quando il destino dell’Afghanistan dipenderà dagli afghani, il caos avrà ragione della pace e minerà il bene comune. Esploderà una nuova guerra civile perché il vero problema è che l’Afghanistan è un coacervo di razze e tribù che si odiano e che da sempre combattono per il potere. La religione è una scusa, anche se una minoranza vorrebbe imporre la teocrazia come in Iran. Ci si ammazza perché è radicato nell’animo degli uomini afghani, soprattutto i pashtun, il codice d’onore della forza. I prepotenti devono prevalere sui deboli e asservirli. Tutto ciò comporterà che l’Afghanistan non smetterà mai di essere un cockpit (il recinto dei polli da combattimento), come nell’Ottocento, cioè lo scenario di una sottile fida geopolitica e militare. Chi saranno i protagonisti? Gli americani, i russi e i i cinesi. A Herat, una sera, alla mensa ufficiali della base militare italiana, il capo dei servizi segreti tedeschi, ubriaco di birra, si lasciò scappare una frase enigmatica. “È qui, a Kabul, che avrà inizio Armageddon”. Non so se ha ragione ma di una cosa sono certo: si parlerà dell’Afghanistan ancora per molto tempo. L’inferno non è che il paradiso capovolto, scrisse Giovanni Papini. È improbabile che l’Afghanistan torni ad essere un paradiso.
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