Oggi mi è capitato di vedere su Rai News 24, un toccante documentario sul genocidio del Ruanda; per chi ha voluto dimenticare, o per chi non poteva ricordare perché troppo piccolo, correva l’anno del Signore 1994, ma probabilmente quell’anno il Signore si era messo in aspettativa, perché quello che è successo sedici anni fa in quel piccolo staterello dell’Africa Orientale, sembra progettato dall’anticristo in persona: un esercito, non di soldati, ma che sarebbe paradossale definire di civili, scese in strada con machete e mazze chiodate, con le radioline sintonizzate sull’unica stazione rimasta, quella governativa, che incitava a “lavorare”, a eliminare gli scarafaggi, ovvero i Tutsi (ma anche gli Hutu che si ribellavano al massacro). Essere nati Tutsi significava attendere il proprio massacro, magari ad opera del vicino di casa, quello che fino a qualche mese prima avresti potuto definire addirittura tuo amico. L’alternativa era scappare, magari in Burundi, correre per dodici ore senza guardarsi indietro, e verso una salvezza che era solo un’ipotesi di speranza. Ma chi erano, e chi sono, i Tutsi e gli Hutu? Sono due gruppi etnici, che si sono scoperti diversi solo con la colonizzazione europea (che nell’area identificarono anche un terzo gruppo, i Twa, i pigmei), prima tedesca e poi belga, generalmente si identificano i Tutsi con i cosiddetti Watussi, ma le differenze fisiche e somatiche con gli Hutu vennero forzate dagli scienziati e dagli antropologi dell’epoca, del resto le unioni e i matrimoni misti nell’area erano la regola. Gli europei preferirono i Tutsi, che erano minoranza, in parte perché riconosciuti fisicamente più prossimi alla razza caucasica, in parte perché più ricchi e colti (tradizionalmente erano allevatori, e gli Hutu agricoltori). Finita la colonizzazione cominciarono le tensioni, che sfociarono prima nella guerra civile (1990-1993), e poi nel genocidio; “motivi etnici”, la sentenza è fin troppo semplice, “scontri tribali”. Ma non è così; l’unico inviato italiano durante il genocidio, Federico Marchini (cliccate per vedere un’intervista sull’argomento rilasciata per il sito di Beppe Grillo) descrive che quello che spingeva uno ad ammazzare il proprio vicino di casa, non era l’odio razziale, ma la minaccia, da parte delle milizie e dei gruppi che miravano al potere, che in caso si fosse rifiutato a morire sarebbero stati lui e i suoi parenti. Avevo quattordici anni quando cominciò il genocidio ruandese, ora ne ho trenta e quell’inferno si è solo arrampicato sullo stesso meridiano fermandosi dalle parti del Darfur. Ok, ma a cosa serve rivangare il passato? noi cosa ci possiamo fare? E’ una frase che almeno una volta nella vita ci siamo fatti. Ovviamente io non so cosa possiamo fare, ma ho qualche idea su cosa non dobbiamo fare; ad esempio dimenticare. I superstiti del genocidio che raccontano in giro per il mondo quello che hanno visto, rischiano la vita ogni giorno, come racconta la scrittrice Yolande Mukagasana, e se c’è qualcuno disposto a uccidere qualcun altro per un ricordo, ma soprattutto se c’è qualcuno disposto a morire per raccontarlo, un motivo ci sarà.
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